Non è una novità che le grandi aziende facciano pressioni sui governi per interesse. L’industria automobilistica o quella del tabacco, le compagnie petrolifere o quelle che producono armi cercano di difendere i propri interessi lavorando per ottenere decisioni politiche a loro favore. Non fanno eccezione le big tech, le grandi aziende tecnologiche.
Ma quel che è successo il 13 gennaio è un’evoluzione del lobbismo così come lo conosciamo fin qui. La OpenAi, infatti, ha pubblicato un documento sullo sviluppo delle intelligenze artificiali che si intitola AI in America. OpenAi’s economic blueprint.
“Il progetto”, si legge sul sito ufficiale dell’azienda, “delinea proposte politiche per massimizzare i benefici dell’intelligenza artificiale, rafforzare la sicurezza nazionale e stimolare la crescita economica degli Stati Uniti”.
Nella presentazione delle proprie idee, la OpenAi si rivela ovviamente orientata al profitto ma anche incredibilmente nazionalista. È un peccato che ci sia questo impianto retorico e politico nel progetto, perché alcune delle proposte e delle soluzioni – a partire dalla necessità di insegnare alle persone, fin dalla più tenera età, come usare le ia e come personalizzarle – sono interessanti, utili, innovative e anche auspicabili.
Da un punto di vista delle scelte lessicali, è interessante notare l’uso insistito del termine America per riferirsi agli Stati Uniti. È vero che a volte questa scelta viene fatta anche dai giornali e che rappresenta una tradizione consolidata. Ma, per esempio, secondo il New York Times manual of style and usage, il termine America va usato in contesti ampi, retorici, spesso per riferirsi agli Stati Uniti in modo simbolico o culturale, come nel caso di opinioni o titoli evocativi.
Non è detto che questa scelta, da sola, indichi necessariamente un allineamento allo slogan di Trump “Make America great again” e alle sue idee, ma è davvero difficile non pensare che ci siano ammiccamenti alla teoria politica della supremazia statunitense. E non solo per l’uso enfatico di alcune parole.
“Crediamo nell’America perché l’America crede nell’innovazione”, scrive Chris Lehane, il vice presidente della OpenAi nella sua introduzione. “Ecco perché il nostro amministratore delegato [Sam Altman, ndr] sarà a Washington il 30 gennaio per presentare lo stato dell’avanzamento delle intelligenze artificiali e come possono favorire la crescita economica”.
Proseguendo con la lettura troviamo continui riferimenti alla necessità che gli Stati Uniti – l’America – mantengano la loro leadership globale. Gli altri paesi sono visti solamente in un’ottica binaria: avversari o alleati. Si parla esplicitamente della competizione con la Cina e del rischio che bloccare lo sviluppo delle intelligenze artificiali possa favorire il partito comunista cinese.
Oltre alla Cina, non vengono nominate altre nazioni in relazione alle ia. Il documento non contiene nemmeno riferimenti espliciti alle economie emergenti o a come le intelligenze artificiali possano essere usate per affrontare sfide globali comuni come il cambiamento climatico, la povertà o le disuguaglianze internazionali.
Ci sono riferimenti agli alleati e alle nazioni “partner” ma, coerentemente con tutto l’impianto del documento, anche questa parte è radicalmente autoreferenziale e colonialista: riflette una visione in cui gli Stati Uniti sono egemonici, il fulcro dell’innovazione e della governance delle ia. Il resto del mondo è relegato a un ruolo marginale o subordinato. “Esportare responsabilmente i nostri modelli agli alleati li aiuterà a costruire i loro ecosistemi di ia […] su tecnologie statunitensi, non su tecnologie fondate dal partito comunista cinese”, scrive la OpenAi.
Il Regno Unito e l’Europa si meritano una menzione, ma non in senso geopolitico. È una menzione aneddotica e funzionale a tutto l’impianto del documento: “Le automobili non sono state inventate qui, sono state inventate in Europa. […] Ma nel Regno Unito, la crescita delle nuove industrie fu ostacolata dalla regolamentazione. […] L’America, invece, ha avuto un approccio molto diverso alle automobili, unendo la visione innovativa del settore privato alle idee del settore pubblico per sbloccare la nuova tecnologia, i suoi vantaggi per l’economia e – con la prima guerra mondiale incombente – per la sicurezza nazionale”.
È abbastanza chiaro dove si voglia andare a parare, ma il passo successivo lo chiarisce ribadendo che grazie a queste scelte di deregolamentazione “il paese divenne il cuore dell’industria automobilistica mondiale”. Deregolamentare, dunque, per la OpenAi significa garantire la supremazia statunitense.
Il documento si concentra anche sulla già citata sicurezza nazionale, sulla competitività, sull’indipendenza tecnologica, sulla “reindustrializzazione” e sull’importanza di investire in infrastrutture statunitensi. Tutti questi elementi ammiccano o o richiamano direttamente molte idee di Trump.
Ma il punto cruciale, che rivela anche tutto l’opportunismo di questa ingerenza politica, è legato a quell’aneddoto storico sulle automobili. Nella visione della OpenAi, per regolamentare le ia bastano “i valori democratici della nazione”, e poche regole di buon senso – il riferimento implicito è alla California, che ha fatto la sua legge sull’ia; l’Ai act europeo, invece, non viene nemmeno preso in considerazione – per garantire investimenti, competizione e libertà per tutti.
Insomma, il progetto economico (e politico) della OpenAi sembra un manifesto nazionalista, portavoce del liberismo più sfrenato misto a qualche vaga idea libertaria. Ma, allo stesso tempo, è un documento opportunista: non si può dubitare che, dovesse cambiare il vento politico, cambierebbe anche questa visione, riadattandosi. Per adesso, però, fa comodo così a tutti gli attori più potenti in America. O meglio, negli Stati Uniti.
Questo testo è tratto dalla newsletter Artificiale.
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