02 marzo 2024 09:01

Gli Stati Uniti e la Cina stanno discutendo nuove misure per prevenire un’ondata di insolvenze sul debito pubblico dei paesi emergenti e in via di sviluppo. Lo scrive Bloomberg, citando fonti vicine ai negoziati. I contatti sarebbero cominciati poco prima del vertice tra il presidente statunitense Joe Biden e quello cinese Xi Jinping a San Francisco, nel novembre 2023. Se confermata, l’iniziativa “sarebbe uno dei tentativi più importanti fatti da anni per rafforzare la cooperazione in campo economico tra le due potenze”. Il governo di Washington è il più influente nel sistema finanziario globale e nelle strutture del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale, mentre Pechino è ormai il principale creditore dei paesi in via di sviluppo ed è sempre più spesso un prestatore globale di ultima istanza alternativo all’Fmi e agli Stati Uniti.

Uno studio pubblicato nel 2023 da un gruppo di ricercatori dell’istituto AidData, della Banca mondiale, dell’Harvard Kennedy school e del Kiel Institut für Weltwirtschaft mostra che tra il 2019 e il 2021 la Cina ha concesso 104 miliardi di dollari di prestiti ai paesi poveri. E tra il 2008 e il 2021 ha speso 240 miliardi di dollari per salvare ventidue governi che avevano accumulato troppi debiti per realizzare le infrastrutture della nuova via della seta. Quasi l’80 per cento di questi salvataggi è avvenuto tra il 2016 e il 2021, a favore di paesi come l’Argentina, la Mongolia, il Pakistan, l’Egitto e lo Sri Lanka. Nel 2010 gli aiuti ai governi indebitati erano pari a meno del 5 per cento dell’intero portafoglio cinese di prestiti internazionali, mentre oggi sono il 60 per cento.

Da anni i dissesti finanziari di singoli governi sono regolati in base a procedure internazionali, tra cui il recente Common framework voluto dai paesi del G20, che privilegiano la possibilità di una cancellazione parziale dei debiti. Il Ciad, l’Etiopia, il Ghana e lo Zambia hanno invocato il Common framework, ma solo il primo paese è riuscito a ottenere rapidamente gli aiuti. Forse anche per questo Washington e Pechino stanno cercando soluzioni comuni. Tra le idee in discussione c’è la possibilità di allungare le scadenze dei debiti prima che un governo sia costretto a dichiararsi insolvente e ad aprire trattative con i creditori. Trattative che spesso procedono a rilento, come dimostrano i colloqui per la ristrutturazione del debito pubblico del Ghana e dello Zambia.

Un’altra idea è aumentare la capacità di credito delle istituzioni multilaterali, in particolare quella della Banca mondiale. L’obiettivo della Cina e degli Stati Uniti è alleggerire il peso dei debiti che grava sulle spalle dei paesi poveri (nel 2022 hanno speso per i loro impegni finanziari la cifra record di 443 miliardi di dollari) e individuare un’alternativa agli alti tassi d’interesse applicati oggi sui mercati (di recente, per esempio, il Kenya ha collocato titoli di stato per 1,5 miliardi di dollari a un tasso del 10,3 per cento). Le proposte congiunte delle due potenze dovranno ricevere il sostegno dei paesi del G20, dell’Fmi e della Banca mondiale, oltre a quello dei grandi creditori privati. Secondo le fonti citate da Bloomberg, le prime soluzioni potrebbero essere presentate al vertice del g20 di Rio de Janeiro previsto a novembre.

Almeno una decina di paesi in via di sviluppo, aggiunge Bloomberg, ha già dichiarato insolvenza oppure è in grande difficoltà e potrebbe farlo presto. Non li agevola il fatto che i tassi d’interesse siano cresciuti sensibilmente dopo che le principali banche centrali del mondo, a cominciare dalla statunitense Federal reserve (Fed), hanno aumentato il costo del denaro per contrastare l’avanzata dell’inflazione. È un grave problema innanzitutto per i governi che hanno contratto prestiti in dollari: dalla fine del 2020 la valuta statunitense è cresciuta dell’11 per cento e quest’anno ha già guadagnato il 2,6 per cento. L’Fmi, tra l’altro, stima che un apprezzamento del dollaro pari al 10 per cento riduca la crescita dei paesi emergenti dell’1,9 per cento dopo un anno e ne danneggi il commercio, la disponibilità del credito e il mercato azionario.

Tuttavia, le difficoltà dei paesi in via di sviluppo sono dovute anche ai debiti emessi nelle loro valute. Come spiega il Wall Street Journal, terrorizzati dalle crisi in America Latina e in Asia degli anni ottanta e novanta, quando i prestiti in dollari avevano costretto all’insolvenza decine di stati, molti economisti avevano consigliato ai governi dei paesi poveri di indebitarsi nelle monete locali: in questo modo, sostenevano, invece di dipendere dalle fluttuazioni del dollaro o di altre monete forti, in caso di crisi avrebbero sempre potuto stampare denaro per ripagare i creditori o cambiare gli accordi senza passare dai tribunali di New York e Londra. “Le cose”, scrive il quotidiano statunitense, “non sono andate come pensavano”. Innanzitutto perché vari governi, invece di usare i crediti in valuta locale per ridurre quelli in dollari, vi hanno fatto ricorso per indebitarsi ancora di più e finanziare ulteriore spesa corrente. Il risultato è che “oggi i debiti in valuta locale sono il peso maggiore per i loro bilanci, con interessi molti più alti rispetto a quelli pagati sui debiti in dollari”.

Tutte spese che divorano le risorse destinate agli investimenti nella sanità, nell’istruzione e in altri settori chiave della vita economica e sociale. Quest’anno lo Sri Lanka, reduce da una clamorosa crisi finanziaria, spenderà il 40 per cento delle sue entrate per pagare gli interessi dei debiti in valuta locale. Nel 2022 questa voce di costo ha assorbito un terzo delle entrate del Ghana, con gli interessi sui titoli a tre mesi arrivati al livello record del 36 per cento. Nel 2024 il Pakistan pagherà interessi sui debiti in valuta locale pari a più della metà delle sue entrate, sette volte quello che spenderà sui debiti in dollari.

La crescita di questi debiti è stata incoraggiata non solo dai governi assetati di fondi per i loro progetti, ma anche dagli investitori occidentali, alla ricerca di rendimenti elevati lontano dagli Stati Uniti e dall’Europa, dove per anni i tassi sono stati bassissimi. “Nel 2008”, spiega il Wall Street Journal, “i fondi d’investimento statunitensi ed europei detenevano crediti in valuta locale per 23 miliardi di dollari, cinque anni dopo si era passati già a 160 miliardi. Nel 2017 gli investitori internazionali possedevano il 60 per cento dei titoli di stato a medio termine in valuta locale del Ghana e quasi un terzo di quelli egiziani”.

In tutti questi anni, prima che il rialzo dei tassi evidenziasse la gravità del problema, l’Fmi e la Banca mondiale sono rimaste concentrate sui debiti in dollari. Tutto è cambiato quando gli investitori hanno cominciato a riportare in occidente i capitali investiti nei mercati emergenti e in via di sviluppo: a giugno del 2022 sono tornati nei paesi ricchi cinquanta miliardi di dollari. Proprio in quel periodo sono arrivate le insolvenze dello Sri Lanka (aprile 2022) e del Ghana (dicembre 2022), mentre molti stati non riuscivano più a finanziare servizi essenziali, e il malcontento e la crisi spingevano i loro cittadini a scendere in piazza, in alcuni casi provocando la caduta dei governi.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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