Vari segnali rafforzano il timore che l’economia globale possa piombare in una situazione simile a quella degli anni trenta del novecento, quando l’esplosione del protezionismo – racchiusa nell’espressione beggar-thy-neighbor (ai danni del tuo vicino) – fece scoppiare una profonda crisi passata alla storia come Grande depressione. Secondo Bloomberg, uno dei segnali più preoccupanti è arrivato proprio all’inizio del nuovo anno, il 3 gennaio, quando la Cina ha deciso di svalutare la sua moneta, lo yuan, nei confronti del dollaro.

La notizia non ha fatto certo piacere al presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump, che da tempo accusa i partner commerciali di usare i cambi monetari e altri strumenti per favorire in modo scorretto i propri esportatori, infliggendo danni enormi alle aziende statunitensi.La notizia rafforzerà il suo proposito di colpire gli altri paesi con una raffica di dazi sulle importazioni. Tutto questo potrebbe scatenare una serie di reazioni a catena fatte di ulteriori svalutazioni e dazi, che riporterebbero il mondo più o meno a novant’anni fa, spiega Bloomberg.

Uno studio degli economisti Kris Mitchener, della Santa Clara university, e Kirsten Wandschneider, dell’università di Vienna, ha stimato che negli anni trenta le guerre monetarie fecero contrarre il commercio globale di almeno il 18 per cento. Nell’estate del 1933 Franklin D. Roosevelt, da pochi mesi eletto presidente degli Stati Uniti, mise in pratica la sua politica dell’America-first rinunciando a un vertice economico globale a Londra perché aveva in programma una vacanza in barca. In quel periodo “più di settanta paesi svalutarono le proprie monete, danneggiando gli scambi globali, facendo aumentare i costi dei prodotti e aggravando le tensioni commerciali”.

Secondo Michael Pettis, economista statunitense che insegna al Carnegie endowment for international peace, è vero che gli anni trenta furono un periodo in cui il protezionismo e il crollo del commercio mandarono in rovina l’economia globale e quindi è altrettanto vero che oggi ci offrono una lezione preziosa. “Ma è bene raccontare la storia come si deve”, dice. È sbagliato, precisa Pettis, pensare che i dazi e le svalutazioni furono la causa di tutto, perché a quel punto la soluzione sarebbe ritirare le misure. In realtà le guerre monetarie e il protezionismo – negli anni trenta del novecento come oggi – sono la conseguenza di profondi squilibri commerciali preesistenti.

Oggi questi squilibri coinvolgono innanzitutto le principali potenze economiche del pianeta, gli Stati Uniti e la Cina, guidate da due leader – Trump e Xi Jinping – che per motivi diversi hanno una visione mercantilista dell’economia globale: da un lato il prossimo inquilino della Casa Bianca vuole ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti per rilanciare l’industria nazionale e i suoi posti di lavoro; dall’altro il governo di Pechino cerca di superare i problemi dell’economia nazionale puntando quasi esclusivamente sulla produzione industriale, che viene assorbita in misura irrisoria dai consumi interni e in gran parte dalle esportazioni, fatto che provoca rabbia e paura nel resto del mondo, soprattutto in occidente.

Basandosi sui dati del governo di Pechino e del centro studi olandese Centraal planbureau, Brad Setser e Michael Weilandt, economisti statunitensi del Council on foreign relations, stimano che nel 2024 l’espansione della produzione manifatturiera cinese ha fatto crescere le esportazioni del paese asiatico del 13 per cento, un risultato sbalorditivo considerando che nello stesso arco di tempo il commercio globale è aumentato del 3 per cento.

Allo stesso tempo le importazioni cinesi sono salite di appena il 2 per cento. Le esportazioni degli Stati Uniti e dell’Unione europea, invece, sono cresciute in linea con l’andamento del commercio globale. Ma, soprattutto, questi due mercati hanno contribuito ad assorbire la sovraproduzione cinese. Sono nella stessa situazione anche varie economie emergenti, come il Brasile o l’Indonesia, che infatti hanno cominciato a imporre dazi sui manufatti cinesi.

Difficilmente Xi Jinpjng cercherà di risolvere questi squilibri incentivando i consumi interni. Come spiega Lingling Wei, capo corrispondente dalla Cina per il Wall Street Journal, i vertici di Pechino sono convinti che rafforzare ancora di più la potenza industriale del paese sia il mondo migliore per superare gli Stati Uniti nella guida dell’economia globale e allo stesso tempo lasciarsi alle spalle i gravi problemi economici interni: anni di “crediti insostenibili hanno alimentato una paurosa bolla immobiliare e una serie impressionante di investimenti in opere infrastrutturali di cui nessuno aveva bisogno”; è per questo che oggi il paese è alle prese con la deflazione, con enti locali che affondano nei debiti, una crescita anemica, investitori e aziende occidentali in fuga.

L’idea di incentivare i consumi è invisa al Partito comunista, che teme di perdere il controllo sulla società. E chi sostiene certe tesi finisce nella lista di proscrizione, com’è successo all’economista Gao Shanwen: Xi Jinping avrebbe ordinato di “metterlo in riga” dopo che Gao ha messo in dubbio l’affidabilità dei dati comunicati da Pechino e della politica economica del governo. Da allora l’economista non può più parlare in pubblico.

Nel frattempo uno studio della United nations industrial development organization fa sapere che nel 2000 gli Stati Uniti e i loro alleati in Asia, in Europa e nell’America Latina dominavano la produzione industriale globale, lasciando alla Cina solo il 6 per cento; oggi, invece, si prevede che il paese asiatico possa arrivare al 45 per cento, un livello che ha due soli precedenti nella storia: il Regno Unito all’inizio della rivoluzione industriale e gli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. Per scongiurare questa prospettiva, Trump è pronto a imporre una raffica di dazi, che in realtà potrebbero colpire indistintamente avversari e amici.

Secondo il Washington Post, il presidente eletto e i suoi collaboratori stanno lavorando a una serie di tariffe universali, cioè per tutti i paesi che esportano negli Stati Uniti, ma solo in alcuni settori considerati strategici e comunque importanti per la sicurezza nazionale. A questo proposito stanno prendendo in considerazione l’idea di ricorrere all’International economic emergency powers act, una legge del 1977 che autorizza la Casa Bianca a gestire unilateralmente le importazioni dichiarando l’emergenza nazionale. L’obiettivo è riportare l’industria manifatturiera negli Stati Uniti, ma gli stessi consiglieri di Trump, aggiunge il quotidiano, sono consapevoli che misure simili potrebbero scatenare “rappresaglie nel resto del mondo” – soprattutto da partner storici come l’Unione europea, il Canada, il Giappone o il Messico – e allo stesso tempo far aumentare i prezzi per i consumatori e le aziende statunitensi”.

La lotta agli interessi della Cina sta portando Trump a dichiarazioni senza precedenti: per esempio quando ha espresso la necessità di occupare punti strategici per le rotte oceaniche come la Groenlandia (che è anche ricca di materie prime) e Panamá oppure quella di far diventare il Canada un nuovo stato a stelle e strisce. Da parte sua la Cina sta cominciando ad attuare varie forme di ritorsione contro i paesi occidentali.

Ma in realtà lo scontro aperto non conviene a nessuno. Come spiega Michael Pettis in un articolo scritto per il mensile Foreign Affairs, negli anni trenta del novecento gli Stati Uniti erano per molti versi nella situazione della Cina di oggi, cioè erano una potenza manifatturiera che aveva un enorme surplus commerciale; oggi, invece, consumano molto di più di quello che producono. Mentre più di novant’anni fa lo Smoot-Hawley tariff act, la legge del 1930 che introdusse dazi su circa ventimila prodotti, danneggiò i commerci statunitensi, oggi un eccesso di dazi e ritorsioni da parte di Pechino danneggerebbe non poco l’economia cinese, almeno fino a quando continua a essere incentrata sulla vendita di merci ai paesi occidentali.

Alla fine sia Trump sia Xi Jinping dovrebbero usare i mezzi a loro disposizione per spingere la parte opposta a trovare un accordo. Come ha scritto lo storico Nial Ferguson, Trump dovrebbe seguire l’esempio di Ronald Reagan, che negli anni ottanta esercitò forti pressioni sull’Unione Sovietica per spingere Mosca a fare importanti aperture. Un atteggiamento simile oggi potrebbe evitare all’economia globale un disastro come quello degli anni trenta del novecento.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica

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