15 dicembre 2016 12:13

Scott Shatford non avrebbe mai immaginato di dover fare i conti con un processo penale. Ha ricevuto l’avviso a maggio, più di un anno dopo che la città in cui viveva, Santa Monica, in California, aveva deciso di vietare gli affitti a breve termine che stavano invadendo la località balneare. Shatford conosceva l’ordinanza del sindaco, ma aveva deciso d’ignorarla e aveva continuato ad affittare per brevi periodi due appartamenti su Airbnb. Pensava che il divieto fosse ridicolo e difficile da far rispettare. E poi, se mai l’avessero beccato, una multa sarebbe stato un piccolo prezzo da pagare per delle case che gli rendevano circa 60mila dollari all’anno.

Ma Santa Monica ha deciso di andarci giù pesante. Dopo che Shatford ha ignorato diversi avvisi, la città lo ha denunciato.

A luglio Shatford è diventato uno dei primi proprietari degli Stati Uniti a essere condannato per aver messo in affitto illegalmente delle case su Airbnb. Ha patteggiato e ha accettato di non affittare più i suoi appartamenti, di pagare una multa di circa 3.500 dollari e di essere in libertà vigilata per due anni. Quello stesso mese ha chiuso la sua attività e si è trasferito a Denver, in Colorado. “Mi aspettavo una multa”, racconta, “ma non pensavo che mi avrebbero trattato come un criminale. Stavo solo cercando di guadagnarmi da vivere”. Il 2 settembre Airbnb si è rivolta a un tribunale federale per fare causa alla città californiana in seguito all’ordinanza.

Quello che è successo a Santa Monica non è un incidente isolato. Gli affitti su Air­bnb sono tenuti d’occhio anche a Los Angeles, Miami Beach e Portland, e fuori dagli Stati Uniti a Toronto, Barcellona e Berlino. A San Francisco un giudice federale ha convalidato l’8 novembre delle leggi che potrebbero imporre delle pesanti multe al sito, mentre Andrew Cuomo, il governatore dello stato di New York, ha approvato alcune importanti limitazioni agli affitti a breve termine. Airbnb non l’ha presa bene: oltre a Santa Monica, ha fatto causa ad altre tre città statunitensi quest’anno.
E i problemi arrivano proprio nel momento in cui Airbnb cerca di trasformarsi in un’azienda di viaggi completa ed è pronta per quotarsi in borsa.

Buoni e cattivi
Airbnb ha cominciato la sua attività nel 2007 a San Francisco, con tre ragazzi che cercavano di raggranellare i soldi dell’affitto con un paio di materassi ad aria e un loft vuoto. Come ogni storia che si rispetti, Air­bnb è finita con il diventare il simbolo della sua attività: far guadagnare alle persone un po’ di denaro extra e fornire un’alternativa ai turisti in cerca di un alloggio.

All’epoca era un’idea forte, visto che milioni di persone stavano perdendo lavoro, casa e risparmi a causa della recessione. Air­bnb e un’altra giovane startup, Uber, promettevano di ripensare il sogno americano nel momento in cui il paese ne aveva più bisogno. Per quasi un decennio l’azienda si è scrupolosamente attenuta alla sua missione, trasformandosi nel frattempo da una scalcinata startup a una delle aziende tecnologiche che valgono di più.

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Sulla carta Airbnb vale trenta miliardi di dollari, quanto Marriott International, la principale catena alberghiera al mondo. Ma continua a presentarsi come un’azienda paladina della classe media. I suoi dirigenti sostengono di aiutare le famiglie a pagare le bollette e a rimanere nelle loro case. Airbnb si presenta come la buona della situazione, mentre i cattivi sono quelli che intralciano la strada dell’innovazione, in particolare la lobby alberghiera. Ma l’ultimo anno ha dimostrato che questa narrazione in realtà mostra qualche crepa.

A Santa Monica e altrove, il boo­m degli affitti occasionali comincia finalmente a essere notato, non solo dai suoi sostenitori, ma da chiunque si occupi dei problemi legati all’alloggio. I legislatori si chiedono se Airbnb porti dei vantaggi ai residenti o solo ai turisti di passaggio. Gli inquilini degli appartamenti sono preoccupati che l’arrivo dei turisti diminuisca la loro sicurezza e peggiori la qualità della vita. In luoghi dove gli affitti sono già alti e le sistemazioni a buon mercato scarseggiano, i difensori del diritto alla casa temono che il sito spinga i proprietari più avidi a trasformare le loro abitazioni in alberghi improvvisati.

Una volta registrato il suo appartamento su Airbnb, Shatford ha viaggiato per sei mesi nel sudest asiatico

Dopo anni in cui ha detto di stare dalla parte dei buoni, oggi Airbnb si trova a doversi difendere in alcuni dei suoi mercati principali, e questa pressione non le giova. L’azienda ha intentato cause legali, organizzato manifestazioni e speso milioni in campagne per influenzare l’opinione pubblica. Ha denunciato avversari politici e sventolato ricerche che mettono in cattiva luce gli alberghi. Questi contrasti fanno emergere una cruda verità: messa sotto pressione, Airbnb reagisce come tutte le grandi aziende.

Le cose erano più semplici quando Shatford ha cominciato a ospitare persone nell’ottobre del 2012. All’epoca Air­bnb si presentava come un’alternativa più economica e piacevole agli alberghi e Shat­ford era il prototipo del proprietario: un tizio che aveva bisogno di soldi dopo aver perso il lavoro. Una volta registrato il suo appartamento su Airbnb, Shatford ha prenotato un biglietto di sola andata per la Thailandia e, anche grazie ai ricavi dell’affitto, ha viaggiato per sei mesi nel sudest asiatico.

Residenti preoccupati
Tornato negli Stati Uniti, Shatford si è reso conto che con un po’ di sforzo avrebbe potuto guadagnare bene con Airbnb. “L’intuizione mi ha colpito come uno schiaffo e mi ci sono buttato a capofitto”, racconta. Ha migliorato la sua presentazione su Airbnb, cambiando le foto e facendo esperimenti sui prezzi. “Ho capito che avrei potuto guadagnare quattromila dollari al mese con quell’appartamento”.

L’estate dopo Shatford ha cominciato a espandersi. “In due mesi riuscivo a rientrare nelle spese di un appartamento, e così avevo abbastanza soldi per metterne un altro sul mercato”, spiega. A metà del 2014 gestiva sette appartamenti su Airbnb. Inoltre aveva creato un sito web chiamato Air­dna, che prendeva e analizzava i dati degli annunci pubblicati su Airbnb.

Shatford era solo uno dei tanti proprietari che affittavano casa attraverso l’azienda di San Francisco, per questo è stato colto di sorpresa quando, all’inizio del 2015, il responsabile capo del marketing di Airbnb, Jonathan Mildenhall, ha prenotato un soggiorno in uno dei suoi appartamenti.Shat­ford temeva che il dirigente avrebbe avuto da ridire sul numero di case in affitto che gestiva o sulla sua attività di ricerca dati. Ma quando Mildenhall è arrivato, i due si sono intesi a meraviglia. “Abbiamo chiacchierato per un’ora”, dice Shatford. “Mi ha detto che con meno di cinque appartamenti non avrebbero preso alcun provvedimento. Erano più preoccupati di chi gestiva decine di case e su questo, prima o poi, avrebbero potuto dare un giro di vite”. Un portavoce di Airbnb ha dichiarato che Mildenhall non ricorda questa conversazione.

Anche la città di Santa Monica cominciava a rendersi conto della situazione. Nell’aprile del 2015 i funzionari hanno scoperto che gli affitti a breve termine si erano moltiplicati. In particolare erano preoccupati dall’affitto di intere case per meno di trenta giorni. I legislatori hanno deciso di vietare questa possibilità, perché rischiava di sottrarre appartamenti per i residenti. Ma lasciarono la possibilità di affittare le camere a chi era in possesso di una licenza da parte del comune.

Mentre Santa Monica si sforzava per ridurre gli affitti a breve termine, anche altre città cominciavano a interrogarsi sulla crescita del fenomeno. Nel marzo del 2015 un’associazione di Los Angeles ha denunciato il fatto che Airbnb crea una guerra tra turisti e inquilini, perché i “proprietari guadagnano molto di più affittando i loro appartamenti per brevi periodi su Airbnb”. Gli inquilini, nel frattempo, si lamentavano del fatto che gli ospiti di Airbnb creavano confusione, dimenticandosi di chiudere a chiave le porte o lasciando la spazzatura nei posti sbagliati. “Non abbiamo deciso di prendere casa in un albergo”, racconta Michael Castaldo, che vive nello stesso appartamento a New York da oltre vent’anni.

Una stanza della Darling Mansion, a Toronto. (Bernard Weil, Toronto Star/Getty Images)

Airbnb guadagna su ogni prenotazione: prende il tre per cento dal padrone di casa, e una commissione tra il sei e il dodici per cento dall’ospite. Più prenotazioni significa più guadagni e i proprietari che gestiscono più appartamenti possono accumulare un sacco di prenotazioni. “Seguono le stesse regole delle grandi aziende ma fanno finta di essere un gruppo di bravi ragazzi che hanno avuto un’idea per fare un po’ di soldi dopo aver finito l’università”, racconta Liz Krueger, senatrice dello stato di New York. Alla fine del 2015 era evidente che, se non cambierà atteggiamento, Airbnb rischia d’inimicarsi per sempre i governi di alcuni dei suoi mercati principali.

A novembre dell’anno scorso, dopo aver vinto un referendum a San Francisco, molto combattuto, che voleva limitare il diritto di affittare a breve termine, l’azienda ha lanciato il Community compact: una dichiarazione di quattro pagine dove s’impegnava alla trasparenza, alla collaborazione con le città e a costruire un’azienda “di persone, fatta da persone, per le persone”. Prometteva che si sarebbe occupata seriamente di chi gestiva molte case e che avrebbe cancellato dalla piattaforma i trasgressori peggiori.

Le case e le persone
In giro per il mondo molte città si stavano già occupando di questi trasgressori. Nell’aprile del 2016 l’amministrazione di San Francisco si è resa conto che un quarto dei proprietari di appartamenti affittati a breve termine stava infrangendo le regole; a maggio Berlino ha introdotto delle limitazioni agli affitti di appartamenti interi, prevedendo multe fino a centomila euro; a Miami Beach un provvedimento del comune contro gli affitti a breve termine ha prodotto multe per 1,6 milioni di dollari in appena cinque mesi; a giugno i legislatori dello stato di New York hanno votato a favore di un inasprimento delle regole che Air­bnb si era rifiutata di seguire, vietando perfino di pubblicizzare l’affitto di un intero appartamento per meno di trenta giorni.

Negli Stati Uniti l’attenzione ha raggiunto il massimo a luglio, quando Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts, e altri due senatori degli Stati Uniti hanno scritto una lettera in cui invitavano la commissione federale per il commercio a “studiare e quantificare” l’attività commerciale presente sulle piattaforme per l’affitto occasionale. “Da un lato queste aziende hanno promosso l’innovazione, aumentato la concorrenza e hanno fornito nuovi mezzi con i quali i nostri elettori possono ottenere guadagni supplementari”, hanno scritto. “Dall’altro, siamo preoccupati che gli affitti a breve termine inaspriscano le carenze di alloggi e aumentino i costi abitativi nelle nostre comunità”.

Airbnb la pensa diversamente. Secondo alcuni studi commissionati dall’azienda, gli annunci presenti sul suo sito riguardano un numero di case troppo basso per influenzare il mercato degli affitti. L’azienda ha elogiato le regole “sensate” sugli affitti approvate in alcune città (Filadelfia, Chicago, New Orleans) e ne ha denunciate altre (San Francisco, Anaheim, Santa Monica, New York). Poi, all’improvviso, ha ceduto.

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Il 1 novembre ha introdotto a New York e a San Francisco l’opzione one host, one home (un proprietario, una casa), che impedisce ai proprietari di mettere annunci per più di un appartamento. E all’inizio di dicembre ha accettato, in un accordo con Londra e Amsterdam, di controllare che i proprietari siano in regola con le norme locali sulle licenze e di limitare il numero di giorni all’anno per cui si può mettere in affitto un appartamento. Il 2 dicembre, inoltre, Airbnb ha trovato un accordo con New York, accettando di ritirare la sua denuncia in cambio della promessa, da parte della città, di multare per le violazioni solo i proprietari delle case e non l’azienda. La deputata Linda Rosenthal lo ha definito un “incredibile voltafaccia”, mentre Airbnb ha parlato di “un concreto passo avanti per i proprietari”.

Risolvere le controversie sull’affitto temporaneo di appartamenti interi è fondamentale per Airbnb. A ottobre, questi affitti rappresentavano il 66 per cento del giro d’affari dell’azienda negli Stati Uniti, secondo i dati di Airdna, l’azienda d’analisi di Shat­ford. L’affitto di stanze private, che generalmente è tollerato dalle autorità, rappresentava il 32 per cento del giro d’affari, mentre l’affitto di un posto letto in una stanza era appena il due per cento.

L’azienda si fa ancora forte del suo impegno a migliorare la vita delle persone comuni, ma quest’idea sembra sempre più lontana

A novembre, a Los Angeles, Airbnb ha organizzato il suo terzo Airbnb open, un evento che celebra “lo spirito della comunità”. Hanno fatto un’apparizione l’attore Ashton Kutcher, che ha confessato di aver vissuto in appartamenti trovati su Airbnb dopo aver divorziato da Demi Moore, e l’attrice Gwyneth Paltrow, e si sono esibiti artisti come Lady Gaga e i Maroon 5. Nel corso dell’evento l’amministratore delegato dell’azienda, Brian Chesky, ha presentato Trips, un modo per aiutare i viaggiatori a organizzarsi durante il loro soggiorno, che si tratti di caccia al tartufo o di maneggiare spade da samurai. Trips è uno dei passi che Airbnb sta facendo per diventare un’agenzia di viaggi globale.

L’azienda si sta espandendo in Cina e in India, sta corteggiando i viaggiatori d’affari, e sta facendo da intermediaria tra padroni di casa e inquilini. Tutto questo deve preparare la strada a un altro passaggio fondamentale perché Airbnb riesca a convincere gli investitori che vale i trenta miliardi di dollari di valutazione raggiunti quest’estate.

In attesa di un’occasione
Airbnb sta andando oltre la sua promessa originaria, di essere cioè una piattaforma per la classe media. Sta diventando sempre più professionale, sempre più simile a quelle catene alberghiere che vorrebbe combattere. Da un certo punto di vista è logico: ha annunci per 2,5 milioni di proprietà in 191 paesi, con un milione di ospiti che ci trascorrono la notte ogni giorno.

L’azienda si fa ancora forte del suo impegno a migliorare la vita delle persone comuni, ma quest’idea sembra sempre più lontana man mano che si moltiplicano gli imperativi aziendali. È probabile che la prospettiva di un’offerta pubblica iniziale abbia accelerato questa trasformazione, e che sia alla base delle concessioni che Airbnb ha fatto di recente. Ma questi accordi non sono necessari solo per la borsa: il fatto che le attività dell’azienda si svolgano in una zona legale “grigia”, la minaccia di multe o di conseguenze penali potrebbero ridurre l’interesse dei proprietari nei confronti dell’azienda.

Ma non per Scott Shatford. Anche se non ha ancora ricominciato ad affittare case da quando abita a Denver, scegliendo di concentrarsi su Airdna, Shatford continua a tenere d’occhio il mercato immobiliare, in attesa di un’occasione su cui buttarsi. Il fatto che la marijuana in Colorado si può vendere legalmente ha reso Denver una destinazione apprezzata, e gli affitti per brevi periodi sono autorizzati dalle leggi locali. “Quando parte la carica mi piace essere in prima linea”, spiega Shaftord, aggiungendo di non provare alcun risentimento verso Airbnb per quel che è successo a Santa Monica. “Di sicuro non sarà la fine della mia carriera da affittacamere”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato il 16 dicembre 2016 a pagina 126 di Internazionale con il titolo “Airbnb non è più l’amico della classe media”.
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La versione originale è uscita il 5 dicembre 2016 su Quartz.

This article was originally published in Quartz. Click here to view the original. © 2016. All rights reserved. Distributed by Tribune Content Agency.

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