10 novembre 2021 11:34

Raramente le prospettive di una nazione sono implose in modo così drammatico com’è successo all’Etiopia. Non molto tempo fa questo paese di 110 milioni di abitanti, il secondo più popoloso dell’Africa, era considerato un raro esempio di successo economico. Vent’anni di crescita a doppia cifra e conquiste straordinarie nel campo dello sviluppo stavano cancellando la cattiva reputazione legata al malgoverno e alle ricorrenti carestie. Nel 2018 l’ascesa al potere di Abiy Ahmed, un aspirante modernizzatore, è stata vista come un’opportunità per fare ancora meglio. Abiy avrebbe potuto liberalizzare l’economia e avviare un processo di democratizzazione.

Eppure dallo scorso novembre la situazione è degenerata con una velocità paragonabile a quella degli ultimi eventi in Afghanistan. Nel primo anniversario della guerra tra il governo federale e il Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), le forze tigrine minacciano di marciare sulla capitale Addis Abeba e di cacciare Abiy dal potere. Le forze del Tplf, il partito che ha dominato la politica etiope fino al 2018, non sono i taliban, per quanto brutalmente abbiano potuto governare e qualunque cosa possano dire i loro critici. Ma come i taliban, il Tplf è stato messo al bando dal governo e criminalizzato. E ora potrebbe tornare al potere con la forza. Il conflitto ha scatenato una violenza terribile.

Il 3 novembre un’indagine congiunta condotta dalle Nazioni Unite e dalla Commissione etiope per i diritti umani, un organismo di nomina statale, ha reso noto che tutte le parti in conflitto – le forze governative, i loro alleati eritrei, il Tplf e altre milizie – hanno “commesso violazioni dei diritti umani, delle leggi umanitarie e di quelle sui rifugiati, che in alcuni casi sono da considerare crimini di guerra e crimini contro l’umanità”.

I discorsi dell’odio a sfondo etnico hanno raggiunto livelli che ricordano il Ruanda prima del genocidio. La guerra tra Addis Abeba e il Tplf ne ha innescata un’altra tra il Tigrai e l’Amhara, due regioni confinanti con antiche rivalità e moderne dispute sulla terra e l’accesso al potere. Abiy, che nel 2019 ha vinto il premio Nobel per la pace, è apparso a tratti un folle. “La fossa che si sta scavando sarà molto profonda e lì sarà seppellito il nemico, non sarà il luogo in cui si disintegrerà l’Etiopia”, ha proclamato in un discorso questa settimana, secondo una traduzione della Reuters. “Seppelliremo questo nemico con il nostro sangue e le nostre ossa”. Una versione leggermente più morbida è stata rimossa dal suo account Facebook perché violava le regole sull’istigazione alla violenza.

È difficile vedere una via d’uscita. “Ci sono due opzioni”, ha detto alla Bbc Tewodros Hailemariam, esponente di alto profilo del Movimento nazionale dell’Amhara. “O il Tplf viene sconfitto e il governo centrale dell’Etiopia si salva. O il Tplf va al potere e prende il controllo di Addis Abeba e in tutto il paese scoppierà la guerra civile”.

Fine di un sistema
Come ha fatto l’Etiopia a finire in questa situazione? La maggior parte delle regioni in cui è diviso il paese – tra cui il Tigrai, l’Amhara e l’Oromia – si considerano nazioni con una propria lingua, una propria cultura e delle versioni della storia in contrasto tra loro. Il trasferimento del controllo implica profondi scossoni nell’equilibro di potere tra i popoli che costituiscono “l’impero etiope” ed è stato spesso traumatico.

Haile Selassie, che governava un sistema feudale, fu deposto e successivamente messo a morte da un’insurrezione di stampo marxista nel 1974. La giunta che si insediò dopo la rivolta, detta Derg, smantellò le strutture fondiarie feudali imponendo però un “terrore rosso” culminato con una carestia provocata dagli esseri umani. Dopo decenni di quello che fu percepito come il dominio degli amhara, nel 1991 un esercito ribelle proveniente dal Tigrai guidò le forze che rovesciarono il Derg. Anche se il Tplf rappresenta una regione dove vive solo il 6 per cento della popolazione dell’Etiopia, è rimasto al potere fino al 2018.

Abiy è originario dall’Oromia, la regione più popolosa del paese, dove vive più di un terzo della popolazione del paese, ma tradizionalmente relegata ai margini del potere. La sua elezione era arrivata dopo anni di proteste contro l’influenza sproporzionata del Tigrai sulla vita politica del paese. Abiy ha promosso l’unità nazionale. Agli occhi di alcuni era la promessa di una democrazia moderna e neutrale dal punto di vista dell’appartenenza etnica; per altri annunciava il ritorno alla soppressione dei diritti etnici. Abiy non solo non ha placato i timori di un Tplf escluso dal potere, accusato di azioni terroristiche per destabilizzare il suo governo. Ma si è anche alienato il supporto degli oromo, la sua base, che temevano un ridimensionamento dell’autonomia regionale in nome della visione nazionale.

Questa percezione è all’origine dell’attuale disastro. Il gruppo armato Esercito di liberazione oromo (Ola) si è unito al Tplf ed è plausibile che le due forze marcino insieme su Addis Abeba. Ora Abiy è all’angolo e qualunque cosa diversa da una vittoria totale decreterà la sua fine politica. Il Tplf è in una posizione simile: a un soffio dalla riconquista del potere, l’organizzazione definita da Abiy una “cricca criminale” ha davanti a sé la prospettiva di una traversata nel deserto. L’unico modo possibile per uscirne è attraverso il dialogo. Purtroppo sembra l’esito meno probabile.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato dal Financial Times.

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