29 aprile 2019 10:04

Il 5 marzo 2008, il giorno del suo compleanno, Martin Kemp, professore di storia dell’arte all’università di Oxford vicino alla pensione, riceve una email. Kemp, uno dei massimi esperti di Leonardo da Vinci, è un garbato signore con capelli nero pece molto curati, che ama vestire con una certa eleganza. Abituato a essere bombardato ogni giorno da decine di messaggi sul tema a cui ha dedicato la sua vita accademica, è solito rispondere con una fredda cortesia che lascia intendere che non ci saranno altre risposte. Ma quest’email è diversa. Arriva da Nicholas Penny, direttore della National gallery di Londra, ed è abbastanza sibillina da essere presa sul serio: “Martin, ho qui qualcosa che devi assolutamente vedere”. Il professore si segna la data e, nel giorno stabilito, cancella tutti gli appuntamenti e prende il treno per Londra. Il 19 maggio 2008 si ritrova nella stanza dei restauri della National gallery. Su un semplice cavalletto di legno, di fianco alla Vergine delle rocce, c’è un’immagine che rappresenta Gesù vestito in abiti rinascimentali con la mano destra alzata che benedice, mentre nella sinistra tiene un globo di cristallo di rocca. È il “Gesù salvatore del mondo e signore del cosmo”, ovvero il Salvator mundi, secondo l’iconografia cinquecentesca.

“Quando ho visto il Salvator mundi ho avuto una reazione quasi fisica, ho sentito una presenza, la stessa che provai di fronte alla Monna Lisa”, ha ricordato Kemp il 4 febbraio scorso durante una conferenza al St. Catherine’s college dell’università di Oxford, nel ciclo di seminari dedicati al rinascimento italiano. Il professore fatica a trattenere l’emozione: sono più di cento anni che un nuovo Leonardo non viene alla luce. Per darsi un contegno, Kemp tira fuori una lente d’ingrandimento e comincia a esaminare la sfera di cristallo di rocca in mano alla figura del Cristo. Insieme a lui ci sono altri invitati, tra i quali riconosce stimati studiosi come Maria Teresa Fiorio e Pietro Marani, arrivati da Milano. Incontra per la prima volta Robert Simon, un mercante d’arte di New York che gli viene presentato come il custode dell’opera (scoprirà più tardi che è anche uno dei proprietari).

Kemp comincia a studiare il quadro e si convince che sia un Leonardo autentico. Il suo giudizio è condiviso da altri studiosi e così avviene un miracolo culturale e commerciale. Un’opera che nell’ottocento era stata attribuita alla scuola di Giovanni Boltraffio, un pittore milanese del primo rinascimento, allievo di Leonardo, promossa a opera di Bolfraffio quando fu venduta a un’asta a Londra nel 1958 per 45 sterline, e poi comprata nel 2005 per 1.175 dollari da Robert Simon a Baton Rouge, in Louisiana, entra nel canone leonardesco e diventa nel giro di qualche anno il quadro più costoso del mondo.

Nel novembre del 2017 il principe saudita Bader bin Abdullah al Saud paga 450 milioni di dollari per averla e dichiara di volerla esporre nel nuovo museo Louvre Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. Ma non tutti concordano sull’attribuzione e, fin dalla sua riscoperta nel 2005, il Salvator mundi scatena una polemica dotta tra storici dell’arte, che continua ancora oggi. Ma c’è di più. La vicenda del quadro illumina aspetti opachi del mercato dell’arte e l’intreccio tra interessi commerciali e grandi musei. Nel frattempo del Salvator mundi si sono perse le tracce. Ma andiamo con ordine.

Il dibattito sull’attribuzione
Quando Kemp vede la tela per la prima volta nel 2008, la National gallery ha già deciso di includere l’opera nell’importante mostra londinese Leonardo da Vinci, pittore alla corte di Milano, inaugurata il 9 novembre 2011 e chiusa il 5 febbraio 2012. Nel catalogo pubblicato da Yale university press, il curatore Luke Syson difende l’attribuzione a Leonardo. Va detto che probabilmente il Salvator mundi non fu dipinto nella città lombarda e Kemp sorride quando suggerisce che la mostra aveva “nove dei sei quadri dipinti da Leonardo a Milano”. Eppure la mostra è un successo planetario e i biglietti sono venduti da siti pirata per cifre da capogiro (fino a 400 dollari).

La querelle sull’attribuzione del Salvator mundi però non si placa. Nella recensione di Charles Hope sulla New York Review of Books, l’ex direttore dell’istituto Warburg di Londra elogia la mostra (“intelligente”), ma nell’ultimo paragrafo l’autore scrive con palese disprezzo che “anche tenendo conto del pessimo stato di conservazione, (il Salvator mundi, ndr) è una composizione mediocre ed è difficile credere che Leonardo abbia prodotto qualcosa di così noioso”.

L’asta per il Salvator mundi a New York, novembre 2017. (Timothy A. Clary, Afp)

Frank Zöllner, in un saggio pubblicato nel 2013 sulla prestigiosa rivista Zeitschrift für Kunstgeschichte, conclude che sia stato dipinto dopo il 1507 da un allievo, sulla base di un cartone di Leonardo. Anche Carlo Pedretti, forse il più eminente studioso della sua generazione e professore a Los Angeles, non crede all’attribuzione. I critici sottolineano come la cifra stilistica di Leonardo sia la capacità di catturare corpi in movimento, mentre questo Cristo è una figura statica. Ma nessuno dei sostenitori cambia opinione. Per loro, è un Leonardo autentico.

Mostre pubbliche, vendite private
All’attribuzione si aggiunge presto anche una questione di opportunità. Secondo un principio ferreo, la National gallery non espone opere che sono in vendita. È vero che la tela non lo è ancora nel 2011. Anzi, stando a quanto scrive Martin Kemp in Living with Leonardo, Simon faceva intendere che “i proprietari volevano comportarsi in maniera corretta e che erano interessati a far entrare il quadro in una collezione pubblica”. Se avessero rivelato l’intenzione di venderla subito dopo il passaggio in mostra, è probabile che la National gallery non avrebbe accettato di presentarla.

Simon si rivela abilissimo: ottiene l’imprimatur ufficiale del museo e poi vende a un privato. Nel maggio del 2013 Simon ha già chiuso le trattative e vende il Salvator mundi a un personaggio che potrebbe figurare in un romanzo di James Bond, Yves Bouvier. Uomo d’affari svizzero, consulente di un ricco collezionista russo, erede di una compagnia centenaria specializzata nel trasporto e stoccaggio di beni di lusso, Bouvier è il re del porto franco di Ginevra, dove beni in transito possono sostare senza pagare tasse.

In base alle leggi svizzere, gli oggetti hanno diritto di rimanere in questo limbo per un periodo indefinito durante il quale possono essere comprati e rivenduti. Quando ho visitato Ginevra nell’aprile scorso mi sono reso conto che il porto franco è a poche fermate di bus dal centro della città. All’ingresso si trova un ufficio postale con decine di cassette fermoposta pronte a essere affittate e una galleria d’arte (ripeto: una galleria d’arte in una zona doganale). All’interno c’è una sala per i restauri e una per mostrare le opere ai potenziali acquirenti.

Secondo una stima dell’Economist, il valore delle opere conservate nei depositi è di cento miliardi di dollari. Ci sono più di un milione di oggetti d’arte e tre milioni di bottiglie pregiate (anch’io, al pensare a queste cifre, sento un brivido). Bouvier gestisce depositi dove sono contenuti oggetti dal valore inestimabile. Il loro valore dipende dai certificati di autenticità firmati da esperti. Per ogni oggetto ci possono essere decine di passaggi di proprietà (o proprietà multiple), che non vengono rivelati al pubblico. Soprattutto i prezzi ai quali si compra e si vende rimangono segreti. Chi sovrintende al deposito dell’opera riceve la documentazione per ogni transazione e quindi entra in possesso di informazioni confidenziali su prezzi, proprietari e catene di compravendita.

Bouvier capisce che può mettere a frutto queste conoscenze e decide di fare quello che nessuno dei suoi colleghi ha mai fatto: diventare egli stesso un mercante d’arte, pur senza possedere una preparazione particolare (non ha mai finito l’università) o una galleria. Il miliardario russo Dmitrij Rybolovlev incontra Bouvier nel 2002, quando con il suo entourage va al porto franco di Ginevra per prendere in consegna uno Chagall appena comprato. Dal 1995 Rybolovlev vive con la moglie in Svizzera, ma controlla ancora una miniera di potassio in Russia. All’inizio non ha molte entrature nel bel mondo svizzero, soprattutto in quello dei collezionisti, ma è ricco. Bouvier si rende immediatamente utile per ottenere il certificato di autenticità che manca al quadro di Chagall e offre i suoi servizi di intermediario e consulente.

Rybolovlev lo assume con il compito di trovargli opere di valore da aggiungere alla sua collezione. Nel giro di pochi anni Bouvier compra per conto di Rybolovlev pezzi di Gauguin, Rodin, Modigliani, Picasso, Matisse, van Gogh e Rothko. Nel 2013 Bouvier mette le mani anche sul Salvator mundi. Rybolovlev lo paga 127,5 milioni di dollari. Come Martin Kemp, anche Rybolovlev ha una reazione fisica di fronte al Leonardo, una “vibrazione”, come racconta a Sam Knight in un’intervista pubblicata sul New Yorker nel 2016. Ma l’emozione lascia presto il campo alla rabbia.

Le compravendite di opere d’arte sono spesso opache

Nel 2014 Rybolovlev organizza un party allo Yacht club di Monaco, dopo la partita del Monaco calcio, di cui è proprietario. Tra un cocktail e l’altro, gli ospiti cominciano a raccontare storie non proprio edificanti su Yves Bouvier. Il miliardario russo viene a sapere che il suo fidato agente acquisisce le opere a prezzi molto più bassi di quelli che gli riferisce. Con orrore scopre che Bouvier aveva comprato il Salvator mundi per circa 75-80 milioni da Robert Simon e pochi giorni dopo glielo aveva rivenduto a 127,5 milioni, con un guadagno netto (per Bouvier) di quasi 50 milioni.

Per il russo questa è frode e denuncia il suo consulente, che viene arrestato e resta in galera quattro giorni. Bouvier, per contro, sostiene di non aver fatto altro che il suo mestiere di mercante d’arte, ma anche Robert Simon lo denuncia. Le cause sono tutt’ora in corso in diversi paesi del mondo e le autorità svizzere hanno bloccato alcuni beni di Bouvier. Nel 2017, l’uomo d’affari svizzero ha venduto la sua compagnia di spedizioni e imballaggi.

Entrano in gioco i sauditi
E così veniamo all’ultimo cambio di proprietà del Salvator mundi: nel novembre del 2017 Rybolovlev si vuole liberare del quadro e affida l’opera a Christie’s. La casa d’asta decide di sfruttare al massimo lo status di celebrità dell’unico Leonardo in una collezione privata organizzando un tour mondiale, che tocca Hong Kong, Londra, San Francisco e New York. Più di 27mila persone vedono l’opera, che è poi inserita in un’asta di quadri famosi e non di opere del rinascimento (old masters), come vorrebbe la norma. Con un prezzo minimo di cento milioni, il Salvator mundi stupisce gli spettatori, tra cui lo stesso Martin Kemp – “Non credevo che sarebbe andato oltre il prezzo base” –, e viene battuto per 450 milioni di dollari.

Christie’s non rivela il nome del compratore. Poi si scopre che l’acquirente è un principe saudita poco noto e senza alcuna esperienza di collezionista, Bader bin Abdullah al Saud. Fonti dell’intelligence americane citate dal Wall Street Journal fanno trapelare che il vero acquirente sia Mohammed bin Salman, il figlio del re saudita e uomo forte del regime, noto come Mbs e di recente citato in relazione all’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita in Turchia il 2 ottobre 2018. Bader è molto legato al principe reggente e, quando il New York Times sta per svelare il suo nome, nel dicembre del 2017, il museo di Abu Dhabi annuncia che l’opera è destinata alle sue collezioni, e Bader viene nominato ministro della cultura dell’Arabia Saudita.

Una giungla
Le compravendite di opere d’arte – il cui valore nel 2015 è stimato in 63,8 miliardi di dollari – sono spesso opache e per questo danno adito a ricostruzioni fantasiose. Martin Kemp ha detto, dimenticando per un attimo l’understatement che lo caratterizza, che “il mercato dell’arte è una giungla senza regole”.

Le transazioni avvengono invariabilmente attraverso società fiduciarie – cioè aziende che amministrano beni per conto terzi – con sedi nei paradisi fiscali. Ad esempio, i contratti per i quadri che Bouvier comprava per Rybolovlev erano stipulati da un importante studio legale svizzero. Bouvier operava attraverso una compagnia con sede a Hong Kong e il compratore attraverso una fiduciaria. C’è di più: le grandi case d’asta non sono tenute a chiedere – e spesso loro stesse non sanno – chi sia il proprietario dell’opera. Nei documenti la proprietà viene spesso indicata con un generico “collezionista europeo”.

“Il mercato dell’arte è ideale per riciclare denaro”, ha dichiarato al New York Times Thomas Christ, membro del consiglio direttivo dell’Institute of governance di Basilea. Il governo americano, per esempio, ha accusato di recente diversi uomini d’affari malesi di aver riciclato duecento milioni di dollari comprando oggetti nelle aste di Christie’s. Le opere d’arte sono una merce perfetta per il riciclaggio: facili da trasportare e da conservare, hanno prezzi che possono lievitare senza destare troppi sospetti.

Il ruolo delle botteghe
Anche studiosi, musei e restauratori sono pedine indispensabili in questo mercato. Che cosa compra un collezionista (o un museo) quando acquista un Leonardo? Come ha scritto Peter Schjeldahl, compra un’attribuzione. La merce scambiata è l’idea di possedere un Leonardo. Il collezionista si illude di provare una sensazione epidermica di fronte all’opera. In realtà si emoziona perché accosta se stesso all’opera di un genio. Per questa ragione è fondamentale sapere chi è l’autore, senza troppi dubbi o cautele. Ma la nozione di “autore” che abbiamo oggi non è esattamente la stessa che circolava nel rinascimento. La nozione di Leonardo “genio” deve molto alla mostra voluta da Mussolini che si tenne a Milano nel 1939.

Leonardo, come tanti altri pittori della sua epoca, comincia la sua carriera in una bottega – gestita, nel suo caso, da Andrea del Verrocchio. Nel Battesimo di Cristo (1472-75) di Verrocchio, Leonardo dipinge alcune figure. Col passare degli anni, collabora con altri pittori, come i fratelli de Predis e Boltraffio, alla composizione di diverse opere, ma non dipinge ogni dettaglio. Lo stesso direttore della National gallery, Nicholas Penny, nella email del 5 marzo 2008 a Martin Kemp, avanza l’ipotesi che la bottega potesse aver avuto un ruolo nel Salvator mundi: “Alcuni di noi ritengono che ci possano essere parti dipinte dalla bottega”.

Il Salvator mundi esposto al museo diocesano di Napoli, gennaio 2017. (Ivan Romano, Getty Images)

È noto che nel corso della sua vita l’artista completò ben pochi progetti, come raccontano i contemporanei e poi Giorgio Vasari. La mostra su Leonardo che si è tenuta al Louvre nel 2012 – quasi nello stesso periodo di quella della National gallery di Londra e altrettanto importante – ha stabilito che l’occupazione principale di Leonardo fosse di disegnare bozze per la produzione di quadri di alta qualità, come nota lo studioso Zöllner. Ad esempio, gli storici dell’arte – sulla base dell’analisi dei disegni preparatori di Leonardo per la Madonna Litta, conservata a San Pietroburgo – hanno concluso che la testa della donna corrisponde fedelmente al disegno di Leonardo, mentre quella del bambino al disegno di Boltraffio. Eppure nel catalogo della mostra londinese il ruolo di Boltraffio scompare e il dipinto viene attribuito interamente a Leonardo.

Lo stesso accade con la Vergine delle rocce conservata alla National gallery: la maggior parte degli studiosi è convinta che sia opera della bottega e che il ruolo di Leonardo sia molto più significativo nella versione dello stesso quadro conservata al Louvre. Eppure nel catalogo della mostra di Londra viene considerata “interamente autografa” di Leonardo.

È forse più corretto immaginare le botteghe rinascimentali alla stregua delle agenzie di grafica o di design di oggi. Senza dubbio c’è un elemento di talento personale e autoriale anche nel rinascimento. Nel caso di Leonardo, gli storici concordano che il suo tratto distintivo consiste nel preferire figure in movimento, dinamiche, con il corpo e/o lo sguardo che ruota, a differenza del Salvator mundi. C’è però anche lavoro di squadra e forti interessi commerciali. Nel rinascimento i pittori rispondono alla committenza, come oggi i grafici all’azienda che commissiona loro un prodotto.

Stili, documenti, restauri
Certo per alcuni quadri Leonardo si è impegnato di più che per altri. Uno storico dell’arte dovrebbe chiedersi quale sia la ragione che spiega la differenza nell’impegno del maestro. Sospetto che vi siano molte cause, alcune dovute al caso, altre all’età (una volta costruita la propria reputazione l’artista può delegare di più). Ma certo lo status del committente avrà un ruolo significativo: se il re di Francia oppure il duca di Milano ordinano a Leonardo un’opera, è possibile che l’artista si impegni di più. Dunque la chiave per determinare il grado di impegno starà nello stabilire a chi è destinato il quadro.

Secondo la casa d’aste Christie’s il Salvator mundi era destinato al re di Francia, anche se non ci sono documenti che lo confermano. “Non abbiamo nessun documento da cui emerge che Leonardo abbia dipinto un Salvator mundi”, dice Pierluigi Panza, autore del libro L’ultimo Leonardo. E questo nonostante Leonardo ogni tanto facesse un inventario delle opere in suo possesso. Sarebbe plausibile sostenere che più importante è la commissione, più lettere, carte, documenti verranno scritti, firmati e prodotti. La vera scoperta sarebbe trovare il contratto.

Le considerazioni di tipo stilistico resteranno sempre opinabili, eppure il mondo della storia dell’arte sembra ossessionato dal poter stabilire con certezza chi è l’autore sulla base di considerazioni estetiche, come se l’unica risposta possibile fosse un semplice sì o no. Convince di più pensare all’attribuzione come a un giudizio probabilistico, alla stregua di quanto avviene nelle scienze sociali e politiche. Sarebbe forse più corretto esprimere giudizi cauti, dicendo che “tra le molte ipotesi, una di queste ha una maggiore probabilità di essere corretta, sulla base di una serie di fattori, incluse le considerazioni sullo stile”. E cosa sono esattamente le considerazioni stilistiche?

Attribuire un’opera a un artista implica compararla con il canone universalmente accettato di quell’autore. Quando si cerca di stabilire se un quadro è di Leonardo, lo si confronta con i quadri di cui sappiamo con certezza essere stati dipinti da lui. Questo metodo pone problemi logici: un pittore durante la sua attività potrebbe decidere di cambiare stile. Come uno scrittore non scrive sempre lo stesso libro, così un artista non dipinge sempre la stessa opera. Paradossalmente, è quindi ceteris paribus più probabile che una copia coeva sia accettata sulla base di un giudizio puramente estetico/artistico piuttosto che un’opera innovativa per gli standard di un autore. Ma una volta che un dipinto entra nel canone, il canone stesso cambia, si allarga e la prossima volta che un mercante d’arte ci dirà di aver scoperto un nuovo Leonardo, noi lo confronteremo con un canone diverso da quello usato per attribuire il Salvator mundi. In astratto, il canone si dilata al punto che i quadri che erano considerati la norma possono diventare l’eccezione. Il mercato ha un forte incentivo ad ampliare il numero di quadri di un grande autore e quindi a scoprire nuovi Leonardo, ma senza esagerare, pena il rischio di inflazione.

Infine, ammettiamo pure che possiamo stabilire con un grado di certezza elevato che un artista rinascimentale è effettivamente l’autore dell’opera. Fino a che punto il quadro che vediamo oggi in una mostra corrisponde a quello effettivamente dipinto “dall’autore”? Nel caso di Leonardo c’è una lunghissima querelle circa la vernice scura che usa per coprire le sue opere, come nel caso della versione della Vergine delle rocce conservata al Louvre. Essa dà al quadro un senso di mistero e rende i contorni più soffici, come nota Charles Hope. È questo lo sfumato di cui parlano gli studiosi. Il restauratore capo della National gallery decise nel 1945 di rimuovere la vernice da una serie di opere, tra cui la versione della Vergine delle rocce conservata a Londra. Forse le scelte del restauratore inglese possono essere difese, ma quello che vediamo oggi è frutto di decisioni opinabili prese da una persona che risponde a un gusto contemporaneo.

Le scelte fatte dalla rispettatissima restauratrice americana Dianne Modestini sul Salvator mundi – il quale era molto danneggiato – sono significative. Il fondo dietro l’immagine del Cristo era andato interamente perduto e la restauratrice, sulla base dei suoi studi, ha deciso di dipingerlo in nero avorio. C’è di più: la pulitura ha fatto emergere non uno ma due pollici della mano che benedice. Il pittore si era pentito e ne ha dipinto un altro. Quale dei due avrebbe scelto Leonardo? Non possiamo saperlo. Kemp stesso nella conferenza di Oxford ha sostenuto che, a suo parere, sarebbe stato meglio lasciare entrambi i pollici, per far capire all’osservatore il modo di pensare dell’autore. La restauratrice – immagino d’accordo con i proprietari – ha invece deciso di coprire un pollice. Certo sarebbe stato difficile vendere un Salvator mundi con due pollici per 450 milioni. Queste scelte sono legittime, ma opinabili. L’opera che vediamo è un’interpretazione. Il sospetto è che considerazioni fatte pensando al mercato dell’arte favoriscano scelte drastiche, che militano tutte a favore di un’attribuzione certa e di un’opera di facile lettura.

La scomparsa
Che fine ha fatto il Salvator mundi? Il Louvre Abu Dhabi avrebbe dovuto esporre l’opera nell’autunno del 2018, ma, con un tweet del 3 settembre, il ministero della cultura ha annunciato che la presentazione è stata rinviata. Oggi non si sa se e quando il Salvator mundi vedrà la luce del sole. Dipendenti del museo hanno fatto trapelare che non sanno dove sia finito. Ci sono almeno due ipotesi plausibili sulla scomparsa del quadro. La prima è che il museo stesso abbia dei dubbi sull’autenticità. La restauratrice Modestini ha dichiarato nel marzo del 2019 che un suo collega di Zurigo è stato interpellato per portare a termine un nuovo esame della tela. Questo esame poi non si è fatto e il restauratore ha preferito non commentare la notizia. Se è vero, questo fatto suggerisce che sussistano delle riserve all’interno del museo o tra i nuovi proprietari del Salvator mundi.

La seconda ipotesi è che il compratore, chiunque sia, ha deciso di tenersi l’opera, che adesso si trova appesa nella sua camera da letto o a una parete del suo yacht. Dopo tutto, si può permettere di essere umorale con la merce di sua proprietà. Speriamo che la tratti con la cura che merita. Oppure l’opera è al centro di una segreta lotta di potere che non ci è dato conoscere. Arcana impèrii, direbbe Tacito.

Molta acqua è passata sotto i ponti di Oxford da quella email del 2008. Martin Kemp è oggi professore emerito e rimane un acceso sostenitore dell’autenticità del dipinto. Infaticabile, sta per pubblicare un libro sul tema con Robert Simon (l’ex proprietario). “Leonardo non smette mai di stupire”, ha detto durante la conferenza di Oxford nel febbraio scorso. E ha aggiunto: “Chi vi dice di sapere dove sia il quadro oggi, mente”. Il salvatore del cosmo è scomparso. Se vogliamo guarire i mali del mondo dobbiamo fare senza di lui.

Clicca qui per leggere una bibliografia ragionata con le fonti citate e usate per questo articolo.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it