Di lui si conosceva solo la sagoma. Quando era comparso sui mezzi d’informazione di tutto il mondo il suo volto era sempre stato oscurato e la sua voce camuffata. Invece il 6 febbraio si è mostrato con un completo grigio e la camicia bianca, barba e capelli brizzolati ben curati. E si è presentato così al pubblico di Al Jazeera, a cui ha concesso un’intervista di 50 minuti: “Sono l’ufficiale Farid al Mazhan, capo dell’ufficio prove forensi della polizia militare di Damasco, conosciuto come Caesar, figlio della Siria libera, originario di Daraa, culla della rivoluzione siriana”.

Da quando era scappato dalla Siria, portando con sé 55mila fotografie di cadaveri seviziati e torturati nelle prigioni del dittatore Bashar al Assad, aveva tenuto nascosta la sua identità, usando il nome in codice Caesar. Ma grazie a lui le atrocità del regime siriano sono venute allo scoperto, e finalmente sono state raccolte delle prove fondamentali per individuare le responsabilità e fare giustizia per le vittime e i loro familiari. Porta il suo nome una legge statunitense entrata in vigore nel giugno 2020 che impone sanzioni economiche contro la Siria.

Al Mazhan ha raccontato di essere scappato in Giordania e poi in Qatar e di essersi stabilito in Francia. Ha parlato del suo lavoro in Siria dopo la rivoluzione del 2011: “Fotografare i corpi di persone morte in detenzione, vecchi, donne e bambini arrestati ai posti di blocco a Damasco o durante le manifestazioni per la libertà e la dignità”. Poi la decisione di fuggire: “Una scelta esistenziale”. Infine ha auspicato che le nuove autorità siriane guidate da Mohammed al Sharaa s’impegneranno a perseguire i responsabili dei crimini di guerra commessi durante il regime di Assad e ha invocato la fine delle sanzioni, auspicando un “sostegno internazionale e regionale per ricostruire il nostro paese libero”.

La rivelazione di Al Mazhan è un segno importante, perché mostra che qualcosa nella società siriana comincia a cambiare. E non è l’unico. Un articolo di Le Monde racconta che a Damasco l’arte sta uscendo dall’ombra. La galleria d’arte Zawaya, che dal 2019 era costretta a lavorare in semi-clandestinità, ha organizzato un ciclo di proiezioni di film censurati durante il mezzo secolo di regno della dinastia Assad. Lo inaugura Noujoum an Nahar (diffuso a livello internazionale come Stars in Broad Daylight), un film del 1988 bandito dal regime, che racconta la storia di una famiglia disintegrata dopo la salita al potere di Hafez al Assad. Il regista Ossama Mohammed è rientrato a Damasco dopo quattordici anni di esilio in Francia.

Artisti ed esponenti del mondo della cultura sono ancora titubanti, e non sanno bene cosa aspettarsi dalle nuove autorità. Un esponente del governo di transizione è andato alla galleria e ha parlato con la fondatrice Rola Sleiman, che racconta a Le Monde: “Mi ha assicurato che le autorità sono aperte al mondo della cultura e delle arti, e che sperano di mantenere un dialogo aperto”. Non è stata imposta alcuna censura, l’unico divieto è l’esposizione di nudi o sculture, che l’islam considera un incoraggiamento al culto degli idoli. È difficile però riprendersi dai lunghi anni di Assad, che aveva messo le mani anche sul settore della cultura, in particolare attraverso sua moglie Asma. “Ci sentiamo liberi e allo stesso tempo abbiamo sempre paura. Ma non sappiamo ancora di cosa”, riassume l’editrice Samar Haddad.

Il cambiamento comunque è in corso e si vede soprattutto nel settore dell’informazione, che è stato uno strumento di propaganda fondamentale durante il regime di Assad. L’Orient-Le Jour riferisce che la televisione di stato e l’agenzia di stampa Sana stanno cercando di liberarsi del loro passato e ricostruirsi una professionalità.

Gli anni di Assad sono stati un incubo per i giornalisti. Secondo Reporters sans frontières (Rsf), da quando sono scoppiate le proteste antigovernative nel 2011 il regime e i suoi alleati hanno causato la morte di 181 giornalisti, molti dei quali sono scomparsi in prigione. Quando ancora si chiamava Fronte al nusra, il gruppo islamista Hayat tahrir al Sham, da cui proviene Ahmed al Sharaa, ha rapito otto giornalisti e ne ha uccisi sei, sempre secondo Rsf.

Tra attrezzature vecchie e sgangherate che dovrebbero essere sostituite e nuovi arrivati desiderosi di prendere il posto dei quattromila lavoratori impiegati nelle emittenti statali durante l’era Assad, la sfida è davvero enorme. Il Guardian ricorda che oltre agli organi di stampa ufficiali, la propaganda del regime faceva affidamento anche su influencer e blogger per promuovere la sua immagine.

Oggi le nuove autorità siriane cercano di essere rassicuranti e parlano di “dimenticare il passato”. Ma i mezzi d’informazione indipendenti che hanno pagato caro la loro opposizione al regime sono ancora diffidenti. Alcuni tra i più importanti – Enab Baladi, Al Jumhuriya, Rozana e Arta – hanno scritto una dichiarazione congiunta alle autorità chiedendo garanzie per il loro lavoro, il rispetto della libertà di stampa e la soppressione del ministero dell’informazione e di tutte le forme di censura.

Intanto però le redazioni di alcuni giornali di opposizione che per motivi di sicurezza erano state costrette a lavorare all’estero cominciano a rientrare in Siria. Il giornale Enab Baladi, che era stato fondato nel 2011 a Daraya, vicino a Damasco, e si era trasferito in Turchia tre anni dopo, il 24 gennaio ha annunciato il suo ritorno nella capitale. Anche la catena Syria tv, che trasmetteva da Istanbul, ha aperto un ufficio a Damasco. Il 7 gennaio Tishreen, uno dei tre giornali di stato, ha comunicato che cambierà nome e si chiamerà Al Hurriya: “libertà”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.

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