07 marzo 2018 13:02

Mentre comincia il lianghui, la doppia seduta dei parlamenti cinesi che incoronerà Xi Jinping leader a tempo indeterminato, nell’atrio del palazzo in cui vivo a Pechino la tv a circuito chiuso che intrattiene i condomini in attesa dell’ascensore trasmette immagini del presidente: da giovane spedito a farsi le ossa nelle campagne, da promettente funzionario alle prime armi, da leader carismatico e rispettato nel mondo. C’è tutta la sua storia in eterno loop che le signore con i sacchetti della spesa guardano a bocca aperta per poi infilarsi in ascensore.

Al bar incontro un’amica che non vedevo da tempo. Chiacchierando con lei di solito raccolgo scampoli di opinione pubblica istruita, metto a confronto i mondi, le restituisco il mio parere da laowai (straniero, che per definizione bu dong, “non capisce”).

Oggi di politica cinese non vuole parlare, mi indica il suo smartphone e mi lascia intendere che teme di essere ascoltata. “Ma è spento”, dico. Fa niente, vai a sapere dove arriva l’orecchio del grande fratello.

Mete per esclusione
Quando non riesce a trattenersi, mi scrive dei caratteri su un tovagliolo di carta, spero non mi chieda di ingoiarlo prima di andarcene. Mi dice che vuole trasferirsi in Europa al più presto e mi chiede quale paese le consiglio. Va molto pragmaticamente per esclusione: “Italia, Spagna e Portogallo sono messe male, che ne dici dell’Olanda?”.

Il suo problema non è tanto l’accentramento di potere in corso in Cina, ma il fatto che Pechino sia sempre più difficile e faticosa da vivere. Tutto costa dannatamente troppo, specialmente gli affitti. La qualità della vita è sempre più scadente e la città offre sempre meno opportunità. O i soldi li hai già, e quindi puoi saltare sul carro della nuova capitale-vetrina, oppure ti si prospetta una vita di stenti. A che scopo?

Qualche giorno fa un amico cinese che insegna storia della Cina in un’università straniera mi aveva scritto per ricordarmi che gli devo una birra dato che le sue previsioni si stanno avverando: il partito è così terrorizzato all’idea di perdere il potere che la Cina si muoverà sempre più verso l’autocrazia.

Il fatto che la leadership stia riscrivendo le regole può voler dire che non si sente ben salda in sella

All’epoca dell’ultimo congresso del Partito comunista cinese, lo scorso ottobre, pareva che Xi fosse abbastanza forte per poter accentrare il potere senza la necessità di cambiare il quadro istituzionale. Confermava quest’idea il fatto che Wang Qishan, fedelissimo di Xi, fosse uscito di scena proprio durante quel congresso, rispettando la regola del ritiro dopo una certa età.

Il fatto che la leadership stia invece riscrivendo le regole può voler dire che non si sente ben salda in sella e vuole far capire che si entra in una nuova fase.

Che fase? Il processo di forte accentramento a cui stiamo assistendo è ciclico nella storia cinese e in questa particolare fase sono due i motivi che costituiscono la sua specificità rispetto al passato.

Prima di tutto fa parte di una tendenza globale. In un quadro internazionale in cui diversi sistemi geopolitici sono in competizione per risorse sempre più scarse, il potere ha bisogno di processi decisionali rapidi, senza opposizione, e di politiche esecutive senza intoppi. In secondo luogo, proprio nel momento in cui lanciano slogan come “sogno cinese”, “socialismo con caratteristiche cinesi che entra nella nuova era”, “eliminare la povertà entro il 2020”, “superpotenza entro il 2050”, i leader di Pechino si accorgono che il paese gli sta sfuggendo da tutte le parti, rivelando così il tallone d’Achille della loro ideologia dello sviluppo a ogni costo. Il nuovo ceto medio, che si è arricchito proprio grazie al modello di sfruttamento della forza lavoro migrante condito dalla speculazione edilizia, appena può cerca di portarli all’estero i suoi soldi; la disuguaglianza è stridente; Pechino non riesce a governare lo Xinjiang – luogo chiave per la nuova via della seta – se non con la repressione; a Hong Kong, vent’anni dopo il passaggio dal Regno Unito alla Cina, Pechino non è riuscita a conquistare cuori e menti; Taiwan non ne vuole sapere.

Di fronte al caos interno ed esterno, i leader della Cina che si vuole superpotenza, ma si percepisce gigante d’argilla, ritengono che l’unica garanzia contro il dissolvimento sia l’uomo forte.

A fare di Xi Jinping “l’imperatore dell’universo” concorrono sia il tentativo di avvantaggiarsi rispetto ai concorrenti occidentali nel quadro geopolitico, sia il terrore di essere fragili ed esposti al tracollo. Non conta tanto ciò che la Cina è realmente, ma ciò che crede di essere.

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