11 maggio 2020 11:02

Alcuni parlano di “caos”, altri di “ricetta per un disastro”, e non si riferiscono agli effetti sulla salute o sull’economia del covid-19, ma a uno strumento fondamentale per sconfiggere il virus: la scienza.

Dall’inizio della pandemia sono stati pubblicati migliaia di studi sul virus. “La comunità dei ricercatori si è mobilitata come non mai”, dice John Inglis, della casa editrice accademica Cold Spring Harbor Laboratory Press, con sede a New York.

Tuttavia nella corsa per imparare a conoscere il Sars-cov-2 – in un vortice di dichiarazioni di politici, articoli di giornalisti inesperti e valanghe d’interventi sui social network – è emersa un’altra pandemia, fatta di dicerie, teorie non verificate e falsità varie. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha descritto questa confusione divulgativa con il termine “infodemia”.

Ricerche in anteprima
A destare particolare allarme è il ruolo delle piattaforme che raccolgono i preprint (prestampa), studi con risultati preliminari non ancora verificati attraverso un processo di revisione indipendente. Questi siti erano nati dalle critiche nei confronti del modello tradizionale di revisione paritaria (peer review) e dalla possibilità di sfruttare le nuove opportunità offerte da internet.

Negli ultimi anni questo sistema alternativo di pubblicazione accademica è diventato sempre più importante e apprezzato, perché permette di diffondere più rapidamente le scoperte scientifiche. Nel contesto di un’emergenza sanitaria senza precedenti i preprint possono essere uno strumento molto utile. Il problema è che la pandemia ne ha evidenziato anche il principale difetto: attraverso gli archivi di preprint chiunque può pubblicare qualsiasi cosa senza quasi nessun controllo.

I siti di preprint permettono alle informazioni di “fluire direttamente dagli autori che propongono ipotesi scientifiche ai lettori che non hanno gli strumenti adatti per valutarle”, sottolinea Jonathan Kimmelman, specialista di etica biomedica dell’università McGill, in Canada.

John Ioannidis, dell’università di Stanford, spiega che le scienze naturali hanno adottato i siti di preprint più lentamente rispetto a quelle fisiche, anche perché nel loro caso la ricerca comporta spesso implicazioni per la salute. Tuttavia nel 2013 Inglis e i suoi colleghi hanno creato una piattaforma di preprint per le scienze biologiche, bioRxiv, e l’anno scorso ne hanno aperta una dedicata alla scienze mediche, medRxiv.

Nei primi otto mesi di attività, medRxiv ha pubblicato 1.100 studi. Poi è arrivata la pandemia. Negli ultimi due mesi sono stati aggiunti 3.700 studi, quasi tutti a proposito del Sars-cov-2 e della malattia che provoca, il covid-19. Oggi un sito combinato medRxiv/bioRxiv, dedicato al virus, contiene più di 2.700 articoli.

Il protocollo di un sito di preprint prevede che i ricercatori possano pubblicare le loro scoperte preliminari per permettere ai colleghi di commentarle. In una fase successiva lo studio viene corretto e proposto a una rivista specializzata o, se è il caso, viene ritirato. Secondo Inglis circa il 70 per cento dei preprint viene poi pubblicato nelle riviste scientifiche.

“Quando si combina la scienza con una simile risonanza sociale e mediatica si ottiene una miscela esplosiva che semina il caos”

In circostanze normali questo sistema può migliorare il processo della ricerca, spiega Stuart Ritchie, professore del King’s college di Londra e autore del libro in uscita Science fictions: exposing fraud, bias, negligence and hype in science. “In generale penso che il preprint sia un’innovazione apprezzabile, perché accelera il processo scientifico e consente un dibattito aperto sui dati, permettendo a tutti di avere accesso alle critiche e ai commenti fatti agli studi.

Ma le circostanze attuali sono tutt’altro che normali. Improvvisamente, dice Ritchie, una grande quantità di persone che normalmente non si interesserebbero ai preprint biomedici (e che non ne colgono necessariamente i limiti) ha cominciato a leggerli e a condividerli. Tra queste persone ci sono politici, funzionari, giornalisti, blogger, influencer, paladini antipandemia da salotto, agitatori politici e complottisti. “Quando si combina la scienza con una simile risonanza sociale e mediatica si ottiene una miscela esplosiva che semina il caos”, spiega Ioannidis.

Un altro problema è che persone parzialmente o totalmente prive di conoscenze biomediche stanno postando o commentando articoli . “Ci sono molti preprint pubblicati da autori che non hanno alcuna formazione scientifica o lavorano in ambiti completamente diversi da quello trattato”, sottolinea Ioannidis. “Molti si sono improvvisati epidemiologi dall’oggi al domani. È la ricetta per un disastro”.

Il lato positivo
Naturalmente la rapida diffusione di dati e ipotesi ha degli aspetti positivi. Quando il virus ha cominciato a circolare, per esempio, i siti di preprint hanno permesso di avere accesso ai dati preliminari provenienti da Wuhan e dall’area circostante, agevolando una prima comprensione del virus. “Non siamo nelle condizioni di poter aspettare i sei mesi solitamente necessari per la pubblicazione di uno studio scientifico”, spiega Ioannidis. “È il doppio del tempo dell’ondata epidemica in corso”.

“Nell’ultimo periodo abbiamo imparato moltissimo sul virus e sulla pandemia, con incredibile rapidità”, conferma Inglis. “I siti di preprint hanno permesso ai ricercatori di condividere le proprie scoperte quasi immediatamente, senza alcun costo e con ostacoli minimi, in un processo completamente aperto”.

Tuttavia molti ritengono che la moltiplicazione di ricerche non verificate comporti rischi eccessivi. “In determinate circostanze avere poche informazioni è peggio che non averne affatto”, sottolinea Kimmelman. “Ritengo che questo ragionamento sia valido nella situazione attuale”.

Questo esempio dimostra quando sia difficile, anche per un giornalista esperto, notare errori gravi in una ricerca

Il discusso antimalarico idrossiclorochina è un buon esempio delle conseguenze negative di questo sistema. Il 20 marzo è stato pubblicato un preprint su medRxiv (ora in fase di stampa sull’International Journal of Antimicrobial Agents) riguardo all’efficacia del farmaco contro il covid-19. Secondo Alfred Kim, della facoltà di medicina dell’università Washington di St.Louis, in Missouri, la sperimentazione era stata condotta in modo inadeguato e su un campione di appena venti persone. Tre giorni dopo è apparso su Zenodo un secondo preprint, in cui altri ricercatori elencavano i difetti metodologici della prima sperimentazione.

Ciononostante le conclusioni della primo preprint sono state diffuse e amplificate dai mezzi d’informazione, dai social network e da molti funzionari e politici, tra cui Donald Trump, che ha definito l’idrossiclorochina “un farmaco rivoluzionario”. A quel punto l’interesse dell’opinione pubblica è schizzato alle stelle. In seguito la situazione è ulteriormente peggiorata. Il 30 marzo, su medRxiv, è stato pubblicato un preprint che annunciava i risultati di un’altra sperimentazione limitata su 62 pazienti covid-positivi ricoverati in un ospedale di Wuhan con sintomi lievi o moderati. La ricerca sosteneva che le persone a cui era stata somministrata l’idrossiclorochina erano guarite più rapidamente.

Il giorno successivo il New York Times ha diffuso i risultati dello studio. L’articolo, scritto da un giornalista scientifico, precisava che la ricerca non era stata sottoposta al processo di revisione paritaria e sottolineava la necessità di effettuare ulteriori ricerche, ma includeva comunque le dichiarazioni entusiastiche di alcuni professionisti. “I medici intervistati per l’articolo lo hanno fatto sembrare credibile”, sottolinea Kimmelman.

Lo studio aveva diversi problemi metodologici. “Emergeva una chiara disparità tra ciò che avevano dichiarato di voler fare e ciò che avevano effettivamente presentato”, spiega Kimmelman, precisando che un revisore competente avrebbe individuato subito questo difetto, mentre una persona poco avvezza alla metodologia delle sperimentazioni cliniche difficilmente l’avrebbe colto. Questo esempio dimostra quando sia difficile, anche per un giornalista esperto, notare errori gravi in una ricerca. Secondo Kimmelman spesso perfino i medici non hanno le competenze per farlo.

Risolvere il problema
L’infodemia ha conseguenze concrete nel mondo reale. Nel caso dell’idrossiclorochina i medici ospedalieri hanno cominciato a somministrarla ai pazienti affetti da covid-19, e alcune persone l’hanno presa senza supervisione. Di conseguenza si è anche ridotta drasticamente la disponibilità per chi ne aveva bisogno per curare l’artrite reumatoide, e risorse scientifiche che sarebbe stato meglio impiegare in altri ambiti sono state incanalate verso la ricerca sul farmaco.

La responsabilità di questa confusione non può ricadere esclusivamente sui preprint. Il sito dedicato agli articoli preliminari sul covid-19 contiene un’avvertenza ben visibile per ricordare ai lettori che gli studi non dovrebbero essere usati per stabilire terapie né diffusi come informazioni accertate.

Tra l’altro i siti di preprint non sono l’unica fonte di conoscenze discutibili. Anche le riviste che seguono il metodo della revisione paritaria sono state accusate di aver pubblicato studi affrettati e di dubbia qualità durante la pandemia. È risaputo che il processo di pubblicazione accademica presenta diversi problemi, tra cui una tendenza a privilegiare i risultati positivi. In generale la revisione paritaria non offre la garanzia che le conclusioni di uno studio possano superare la prova del tempo ed essere replicate con successo.

Considerando i benefici dei siti di preprint, cosa si potrebbe fare per ridurne gli aspetti negativi? Inglis è convinto che la comunità scientifica stia già prendendo provvedimenti per accelerare il processo di controllo sugli articoli. Un esempio di questo sforzo sono alcuni progetti specifici, creati dall’ospedale Mount Sinai di New York e dall’università di Cambridge, per fornire una revisione paritaria informale e commenti di esperti. O il consorzio di editori del settore che sta cercando di snellire il processo di revisione paritaria sui preprint senza comprometterne la qualità. Secondo Ritchie gli articoli preliminari dovrebbero contenere una filigrana digitale per fugare ogni dubbio sulla provvisorietà della ricerca.

Anche se medRxiv sostiene che tutti i manoscritti sono sottoposti a un controllo di base per eliminare i contenuti non-scientifici e il materiale che potrebbe comportare rischi per la salute, è evidente che bisognerebbe fare di più per vagliare le ricerche prima che vengano diffuse ai quattro angoli del pianeta. In realtà parte della colpa va attribuita agli stessi scienziati, precisa Ritchie, soprattutto considerando il volume di studi di bassa qualità pubblicati dai ricercatori.

Molti scienziati sono poco inclini a discutere le proprie ricerche con i giornalisti prima che vengono sottoposte alla revisione paritaria, e questo non è necessariamente un bene, perché i giornalisti potrebbero comunque darne notizia, ma senza alcun consulto. In ogni caso i ricercatori che accettano di parlare con i mezzi d’informazione dovrebbero chiarire meglio la natura preliminare e i limiti del loro lavoro, aggiunge Ritchie.

Un altro problema sono gli esperti di un settore che decidono di sconfinare in altri ambiti. A marzo, per esempio, un ingegnere elettronico e un cardiologo hanno pubblicato un preprint in cui sostenevano che il Regno Unito avrebbe registrato soltanto 5.700 decessi dovuti al covid-19 (medRxiv). Diverse testate hanno diffuso quella stima. Attualmente il bilancio nel Regno Unito è di oltre 31mila decessi accertati.

Kimmelman è convinto che si tratti di un problema sociale più generale. “Penso che la questione vada inserita in un quadro più ampio che riguarda i flussi d’informazione nelle società contemporanee, soprattutto in merito alle competenze. Riscontriamo problemi simili nella politica e nella democrazia, con un’estrema abbondanza di notizie e tesi false. Se davvero vogliamo un processo di ricerca affidabile e un sistema sanitario efficiente dobbiamo affrontare il problema al più presto”. ◆ (Traduzione di Andrea Sparacino)

Da sapere
Come distinguere gli studi più affidabili da quelli dubbi

Lo studio è pubblicato su un blog, un sito di preprint o sui social
Queste ricerche possono essere valide, ma serve cautela perché è improbabile che siano state riviste da esperti indipendenti o sottoposte a controlli approfonditi.
Lo studio ha un solo autore
A volte può essere il segnale che si tratti della prima esplorazione di un’idea o la proposta di una vaga ipotesi che non dovrebbe necessariamente essere presa troppo sul serio.
I ricercatori vengono da tutt’altro campo di ricerca
Tutti i settori richiedono formazione e conoscenze specialistiche, ma questo non impedisce ad alcuni di cimentarsi in argomenti di cui sanno poco.
L’analisi è molto veloce
Quando gli studi sono pubblicati pochi giorni o poche settimane dopo un evento, o riportano i risultati di una sperimentazione clinica ancora in corso, vanno considerati con riserva, finché i ricercatori non avranno avuto più tempo per convalidare il loro lavoro.
Lo studio è molto piccolo
Gli studi medici con numero limitato di persone hanno meno probabilità di avere risultati che reggano a ricerche ulteriori. Non esistono regole rigide, ma qualsiasi studio con meno di cinquanta partecipanti è altamente provvisorio.
Lo studio non ha un gruppo placebo
Non è sempre possibile avere un gruppo di controllo che prende un placebo, ma senza questo gruppo può essere difficile sapere con certezza se gli effetti osservati sono significativi.
Lo studio riporta una correlazione o un’associazione
Molti fattori possono essere collegati senza che l’uno causi l’altro.


Questo articolo è uscito su New Scientist

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