26 aprile 2020 17:54

“Dopo la conferenza stampa dell’11 marzo, in cui Conte dichiarava che si doveva chiudere tutto tranne le fabbriche, gli scioperi sono dilagati ovunque. La protesta si concentrava contro le condizioni di lavoro: senza dispositivi di protezione, senza mantenere le distanze minime in reparti e linee, spogliatoi e mense, tutti ambienti sovraffollati e mai sanificati. Confindustria ha fatto pressioni enormi per evitare che il governo sospendesse le attività produttive, e lo ha pure rivendicato pubblicamente, facendo infuriare tanta gente. Se la sua parola d’ordine era ‘l’Italia non si ferma’, quella operaia era ‘non siamo carne da macello’, ‘la salute viene prima dei vostri profitti’”.

Queste parole di Matteo Gaddi e Nadia Garbellini, due ricercatori della Fondazione Claudio Sabattini (Fiom-Cgil) intervistati dalla rivista Erbacce, ci ricordano come sono andate le cose nel nord industriale all’inizio della fase uno dell’emergenza coronavirus. All’alba della fase due, la vicenda si ripete. Non pago delle conseguenze disastrose che le resistenze iniziali a “chiudere” hanno avuto sulle dimensioni del contagio in Lombardia (dove peraltro la maggior parte delle imprese ha continuato a lavorare “in deroga” alle disposizioni del governo per tutta la durata del lockdown) e soprattutto in Val Seriana (dichiarata zona rossa in ritardo proprio a causa delle pressioni degli industriali), lo stesso blocco padronal-confindustriale si ripresenta adesso alla testa del partito degli impazienti che freme per “riaprire”. Con motivazioni infarcite di riferimenti all’interesse collettivo (il pil, l’etica del lavoro, il rischio disoccupazione), ma mosse più prosaicamente dall’ansia per la sorte dei profitti. Nonché – basta leggere le argomentazioni con cui il Giornale milita a favore della riapertura – dalla fretta di suturare la ferita inferta dal covid-19 all’”eccellenza” del modello lombardo rilanciandone la way of life produttiva e prestazionale: c’è stato uno tsunami, l’abbiamo fronteggiato con molto eroismo e qualche svista, ma ora che il peggio è passato the show must go on.

Una pandemia annunciata
Più di 26mila morti (ufficiali), di cui oltre 13mila lombardi, gridano giustizia dalle loro tombe senza fiori contro questa narrazione dei fatti e dei misfatti. E del resto tutti ormai ci siamo fatti un’idea di com’è andata. Non c’è stato uno tsunami a sorpresa, ma una pandemia ampiamente annunciata (dalla scienza e non solo: si veda il discorso di Obama del dicembre 2014), dalla quale i governi, soprattutto occidentali, si sono fatti trovare impreparati e alla quale, complici le incertezze della scienza di fronte a un virus sconosciuto, hanno risposto oscillando fra negazionismo e allarmismo, e fra tentazioni di darwinismo sociale (Boris Johnson e Donald Trump, ma anche alcuni paesi del’Europa del nord) e obbligo di proteggere la popolazione con i lockdown, messi in atto con diversi gradi di intensità nei diversi paesi (quello italiano non è stato uguale a quello cinese, e quello tedesco non è stato uguale a quello italiano).

Non è andato tutto bene, e quello che abbiamo condonato fin qui sotto la morsa dell’emergenza non lo condoneremo da qui in avanti

In Italia (ma anche altrove) una pandemia apparentemente “egualitaria” ha avuto effetti su differenze e disuguaglianze territoriali, economiche, sociali, culturali e istituzionali che ne hanno influenzato l’andamento e l’intensità. Un virus ignoto ha messo in scacco un sistema sanitario decimato dai tagli della spesa pubblica, sguarnito di competenze infettivologiche ed epidemiologiche, carente di posti di terapia intensiva; con strutture ospedaliere deboli in certe aree del paese – per fortuna le meno colpite dall’epidemia – e forti, ma troppo autocentrate e dunque prive dell’apporto fondamentale della medicina di territorio, in aree molto colpite come la Lombardia. Alla pandemia si è sommata la carestia di strumenti di protezione (le mascherine per i comuni mortali e soprattutto quelle per i medici e gli operatori sanitari), di tamponi per la diagnosi e la mappatura del contagio, di test sierologici, di know how tecnologico (l’app per il contact tracing arriva solo adesso, e a una popolazione fra le meno digitalizzate dell’occidente): una carestia scandalosa e colpevole, che ha reso più dilagante il contagio (in primo luogo negli ospedali e nelle Rsa), più rigido e più lungo il lockdown, più inaffidabili i dati epidemiologici (tuttora navighiamo a vista sulle dimensioni reali del contagio, e perfino dei decessi).

Noi incompetenti queste cose le abbiamo imparate in corso d’opera, e abbiamo anche imparato ad attribuirne e valutarne le responsabilità. Chi di noi oggi resiste alla fretta di riaprire non lo fa per claustrofilia: esige semplicemente, in consonanza con la cautela dei virologi e dei medici, che nella fase due le cose non vadano come e magari peggio di come sono andate nella prima. Che non si riapra, per dirla brutalmente, con qualche posto di terapia intensiva in più, ma con la stessa carenza di dispositivi di sicurezza, di tamponi, di test, di strumenti di tracciamento del contagio, o con la stessa sottovalutazione della medicina di base e la stessa corsa all’ospedalizzazione, o con la stessa confusione normativa e istituzionale fra governo, regioni e comuni che abbiamo subito fin qui: tutti nodi che il presidente del consiglio non ha sciolto nella sua conferenza stampa del 26 sera. C’è un salto nella coscienza collettiva che non lo consentirebbe, e che non è l’ultimo dei fattori di cui tenere conto per immaginare il futuro prossimo: non siamo più gli stessi di prima, ma non siamo nemmeno diventati quello che avrebbe voluto farci diventare la melensa pedagogia di massa elargita per cinquanta giorni dalla tv a reti unificate all’insegna dello spot “andrà tutto bene”. Non è andato tutto bene, e quello che abbiamo condonato fin qui sotto la morsa dell’emergenza non lo condoneremo da qui in avanti.

Se ciascuno è per l’altro pericolo e salvezza
Non siamo più gli stessi, perché non si esce uguali a prima da un’esperienza ravvicinata e prolungata con una malattia così insidiosa, una vecchiaia così penalizzata, una morte così serializzata: i nostri sensi ne sono talmente investiti che il senso comune si modifica di conseguenza. Non siamo più gli stessi perché in una situazione che ci chiede di rinunciare al contatto con gli altri abbiamo tuttavia preso contatto con la nostra comune vulnerabilità. Non siamo più gli stessi perché la domanda di sicurezza che fino a tre mesi fa veniva brandita a difesa della macchina economica e dei confini proprietari si è spostata sulla tutela della vita e della salute collettiva. Non siamo più gli stessi perché abbiamo visto quanto il virus apparentemente egualitario colpisca in maniera diseguale e discriminatoria, e questo domanda nuovi conflitti. Non siamo più gli stessi perché tutto ciò che ha a che fare con la riproduzione della vita ha acquisito finalmente la precedenza su ciò che ha a che fare con la produzione di beni, e tutto ciò che ha a che fare con la cura della vita – le relazioni di cui la cura si nutre, il sapere medico di cui si avvale – può diventare un terreno di nuove alleanze. Non siamo più gli stessi perché non possiamo più assolverci dalla nostra distruttività nei confronti della natura, né dalla nostra insipienza nei confronti della scienza. Non siamo più gli stessi perché la voce dei morti senza compianto ci convocherà fino a quando non troveremo il modo di celebrarne pubblicamente il lutto, e quella degli anziani lasciati morire senza un conforto e senza un tampone nelle Rsa o nelle loro case ci assillerà finché non strapperemo la vecchiaia alla segregazione cui ben prima del lockdown l’avevamo cinicamente confinata. Non siamo più gli stessi perché la distanza ci ha inchiodati a un’interdipendenza più forte dell’individualismo che regnava incontrastato nell’affollamento.

Non è per obbedienza passiva a un ordine imposto, e nemmeno per il terrore di contagiarci, che abbiamo accettato di recluderci

Non siamo più gli stessi, soprattutto, perché nel contagio abbiamo capito di essere ciascuno per l’altro, al contempo, pericolo e salvezza, minaccia e rassicurazione, abbandonando le false certezze dell’io autosufficiente e sovrano: e non è possibile valutare i cambiamenti in corso senza partire da questa cruciale rotazione in senso relazionale della soggettività. È questo precisamente il punto che sfugge a chi si ostina a leggere il lockdown come un provvedimento imposto dall’alto, l’esperimento di un regime liberticida che decide arbitrariamente lo stato d’eccezione per farne la norma e infilarci, complici le tecnologie digitali di sorveglianza, in un futuro totalitario. Non è per obbedienza passiva a un ordine imposto, e nemmeno per il terrore di contagiarci, che – in assenza di alternative meno medievali – abbiamo accettato di recluderci, ma per contenere il rischio di contagiare gli altri: era ed è precisamente la salvaguardia del prossimo a richiedere un allentamento della prossimità, un incremento della distanza. Molto cambierebbe nella narrazione del lockdown se le limitazioni cui ci siamo sottoposti venissero declinate, piuttosto che come attentati alla libertà individuale di movimento, come (auto)contenimento della potenzialità di ciascuno di infettare l’altro: e dunque come il segno di una postura relazionale e responsabile, non ego-centrata e asservita.

Nuova governance, nuovi conflitti
Altrettanto fuorviante è l’applicazione del paradigma dello stato d’eccezione all’operato dello stato e del governo. Svariati giuristi hanno fatto presente la differenza fra lo stato d’eccezione, che il nostro ordinamento non prevede, e lo stato d’emergenza, che è quello dichiarato a fine gennaio dal governo ed è previsto dalla costituzione a tutela del diritto fondamentale alla salute. Ma il punto non è solo giuridico e costituzionale.

Lo stato d’eccezione presuppone una decisione sovrana, e una sovranità decidente, che è quanto di più lontano da quello che abbiamo visto all’opera in questi cinquanta giorni. Quello che abbiamo visto è semmai uno stato che risponde all’emergenza “decisa” da un virus cercando di riprendersi la sua funzione originaria di garante della salute pubblica, anche contro gli interessi dominanti (quelli di “l’Italia non si ferma” di cui sopra). Il che non vuol dire che ci sia riuscito: lo stato non è più quello di Hobbes, è uno stato disfatto da mezzo secolo di razionalità neoliberale, che ha applicato anche alle istituzioni la logica della concorrenzialità e della competizione e ha dissolto la certezza del diritto. Con le conseguenze che abbiamo visto nella guerriglia quotidiana fra governo centrale, regioni, protezione civile (per tacere di quella con l’Unione europea), nonché nella mole incoerente di decreti, direttive e norme caratterizzate da un’incertezza normativa che lascia campo libero all’interpretazione arbitraria e vessatoria delle forze dell’ordine.

Il tutto condito da una retorica della guerra del tutto impropria nei confronti di un virus che richiede piuttosto cura e immunizzazione. E da un appello martellante e ambivalente alla responsabilità individuale, che se per un verso ha fatto leva sull’auto-contenimento di cui parlavo poco fa, per l’altro verso ha finito con il colpevolizzare comportamenti innocui come quello ormai paradigmatico dei runner, alleandosi con le peggiori istanze criminalizzanti e delatorie presenti nella società e distraendo l’opinione pubblica dalle responsabilità ben più pesanti imputabili alla gestione politica, economica e sanitaria dell’emergenza.

Aggiungiamo a questo quadro il particolare tutt’altro che secondario dell’inedita funzione pubblica assunta improvvisamente dalla comunità scientifica, a sua volta eterogenea, e dalla pletora di competenze settoriali chiamate a comporre le task force di supporto al governo. E sottraiamo dal quadro il ruolo sempre meno rappresentativo e decisivo del parlamento e delle forze politiche. Il risultato è che la pandemia ha provocato, o forse solo accelerato, una trasformazione della governance che va nel senso non tanto di una torsione autoritaria, quanto di una moltiplicazione concorrenziale e di una frammentazione competitiva dei poteri e dei saperi che si candidano a ridisegnare l’ordine sociale.

Che questa nuova forma di governance non sarà esente da tentazioni repressive e disciplinari, tanto più in un contesto inasprito dalla catastrofe economica e sociale annunciata, è una facile profezia. Ma essa sarà anche generatrice di nuovi conflitti, su un fronte che nella pandemia si è già delineato e che vede in prima fila le soggettività maturate all’insegna della vulnerabilità, della relazionalità e dell’interdipendenza nell’ambito della riproduzione sociale, della cura, della medicina, della logistica, delle fabbriche dove il futuro è affidato a protocolli di sicurezza sanitaria aleatori, delle reti di solidarietà che i protocolli se li scrivono da sé. Come inventare pratiche politiche efficaci per esprimere questa conflittualità in una sfera pubblica compromessa dal distanziamento sociale e dominata da un sistema mediatico che per lo più milita perché tutto torni uguale a prima, è il problema che abbiamo davanti. Ma i tempi di crisi sono anche tempi in cui l’immaginazione politica lavora meglio, e salta con una creatività e una velocità impensabili in tempi normali.

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