22 marzo 2017 14:31

A dicembre dell’anno scorso un’associazione non profit di Berlino, la Tactical technology collective, ha invaso una galleria di Manhattan, a New York. All’interno sono spuntati grandi schermi ed espositori, sui tavoli tablet scintillanti. Le pareti erano bianche e l’arredamento minimalista. A un primo sguardo poteva sembrava un negozio della Apple, ed era proprio questo il punto.

La mostra, organizzata con il contributo della comunità di programmatori Mozilla, parlava al pubblico con il linguaggio visivo del consumo tecnologico, ma invece di mostrare nuovi dispositivi esponeva opere che dovevano turbare i visitatori, facendogli capire quanto poco sanno di privacy e sicurezza dei dati.

Tra le opere esposte c’era la dimostrazione interattiva di un noto software chiamato Churchix: uno strumento di riconoscimento facciale dato in licenza alle chiese, che permette di riconoscere e memorizzare l’identità delle persone che entrano in un edificio. C’era un libro, creato dall’artista Aram Bartholl, che contiene cinque milioni di password rubate a Linked­In nel 2012 (compresa la mia). Il volume era stato consultato così spesso che la costola era rovinata.

Un’opera di Mimi Onuoha, The library of missing data sets (La biblioteca dei dati smarriti), mostrava uno schedario pieno d’informazioni che non si trovano su internet, come il “numero di moschee sorvegliate dall’Fbi”. Era un invito a riflettere sulle implicazioni politiche del non aver accesso ad alcune informazioni, nonostante il fatto che viviamo nell’epoca dell’informazione on demand.

Contribuire alla costruzione di un robot all’epoca sembrava una cosa inimmaginabile

Otto antenne raccoglievano le informazioni emesse da tutti i dispositivi con il wifi attivo che si trovavano vicino alla galleria, proiettandole su un enorme schermo all’interno, un fastidioso promemoria di quanto sia facile essere tracciati e quanto spesso lasciamo che succeda.

La mia installazione preferita era un braccialetto indossabile, di quelli che controllano il numero dei passi e le calorie bruciate, attaccato a un metronomo. Il marchingegno, chiamato UnFitbit, serve a gonfiare il calcolo delle prestazioni atletiche quotidiane delle persone. Sembra una cosa carina, l’idea di voler barare sul numero di passi fatti in un giorno, ma l’opera può essere interpretata anche in modo più cupo: anticipa un futuro in cui le tariffe delle assicurazioni e i servizi sanitari potrebbero essere legati ai punteggi registrati da dispositivi di questo tipo.

Visitare la Glass room, com’era intitolata la mostra, era un modo per ricordarci quanto spesso ci sottoponiamo – anche senza volerlo – a un’inutile sorveglianza, con conseguenze disastrose. “Fino a pochi anni fa tutto questo poteva sembrare un episodio della serie tv Black mirror, invece oggi è realtà”, spiega Marek Tuszynski, uno dei fondatori di Tactical technology collective, che si occupa anche di difesa della privacy e dei diritti digitali. Dopo le elezioni presidenziali, mi ha spiegato, gli statunitensi sembrano più interessati a proteggere i loro dati: “Sta emergendo una nuova consapevolezza. Non stiamo dicendo di non usare più Facebook o gli smartphone, vogliamo solo far vedere questi strumenti con occhi diversi”.

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Ho lasciato la mostra rallegrandomi del fatto che gli artisti stanno esplorando il lato oscuro delle nostre impronte digitali. L’ossessione degli artisti per la tecnologia non è una cosa nuova, ma dieci anni fa si concentravano sulle possibilità del mezzo.

“I ventenni usavano computer e social network senza farsi troppe domande sulla privacy, i dati o il potere delle grandi aziende”, racconta Joanne McNeil, un’artista e scrittrice che spesso si occupa di argomenti al confine tra arte e tecnologia.
Secondo lei molti artisti (ma in realtà non solo loro) erano così affascinati dalle promesse iniziali di internet che non hanno voluto vedere i lati negativi. “Visto che si trattava di uno strumento per creare relazioni, spesso usato per rimanere in contatto con curatori e altri artisti, Facebook sembrava una cosa necessaria, non una da cui tenersi lontani”.

All’inizio anch’io sono stata vittima di questa infatuazione. La tecnologia mi colpiva così tanto che finivo per trascurare le sue implicazioni negative. Nel 2007, mentre guidavo verso una spiaggia della California, ricordo di aver notato un cartellone che pubblicizzava un servizio di pagine gialle gratuito di Google. Più tardi, al ristorante dove lavoravo come cameriera, lo provai. Bisognava digitare GOOG-411 e un risponditore automatico individuava il numero di cui avevi bisogno – un albergo, una casa privata, un’estetista – e lo chiamava per te. È difficile spiegare quanto all’epoca mi sembrasse incredibile.

Prima che gli smartphone e i giga illimitati diventassero così comuni, GOOG-411 era uno strumento geniale, soprattutto se si pensa che era gratuito (la sua alternativa, il numero 411, costava due dollari o più per ogni richiesta). I programmatori di Google usavano questo servizio anche per costruire un catalogo di suoni, che doveva servire a migliorare il sistema di riconoscimento vocale dell’azienda. Contribuire alla costruzione di un robot all’epoca sembrava una cosa inimmaginabile.

Ma questo succedeva quasi dieci anni fa, prima che capissi quanto può essere pericolosa una raccolta di dati all’apparenza innocua, prima che alcuni software simili a quell’elenco telefonico avessero dato vita ai metodi di previsione del crimine usati dalla polizia, ai pregiudizi algoritmici e alle clamorose violazioni della privacy.

Ogni giorno scopriamo nuovi modi in cui le nostre informazioni, teoricamente a prova di bomba, vengono violate. Com’è successo pochi mesi fa a Yahoo, a cui sono state sottratte milioni di password.

Oggi i contratti con le società di servizi internet sono aggiornati con nuove e inquietanti clausole scritte in caratteri minuscoli. I produttori dell’applicazione Evernote, che serve a prendere appunti, hanno recentemente spedito un messaggio a milioni di loro utenti, spiegandogli che i programmatori avrebbero analizzato i loro dati per migliorare il software. Gli utenti potevano rifiutare, ma l’azienda li ha avvertiti che, in questo caso, forse l’app non avrebbe funzionato perfettamente. La levata di scudi contro la novità ha obbligato Evernote a fare marcia indietro.

Senso di urgenza
Oggi gli artisti sembrano criticare gli aspetti più inquietanti della tecnologia. Roddy Schrock, il direttore di Eyebeam, un’associazione non profit che si occupa di nuovi strumenti di comunicazione, ha spiegato in un’intervista che l’atteggiamento degli artisti è cambiato. “Eyebeam è nata alla fine degli anni novanta, un’epoca in cui la riflessione sulla tecnologia era ingenua e utopistica”, ha dichiarato. “Oggi c’è ancora ingenuità, ma nessuno finge di credere che i risultati saranno utopistici”.

Questa mancanza di pretese è evidente. Alcuni miei amici hanno visitato la fiera d’arte contemporanea Art Basel a Miami, e hanno pubblicato sui social network foto di opere come Social security cameras di Fidia Falaschetti. È composta da una serie di telecamere di sicurezza il cui involucro esterno è stato sostituito con i loghi di aziende come Twitter, Google e Instagram. Le telecamere sono un invito a riflettere sull’ossessione per la raccolta d’informazioni e su come il nostro bisogno di sentirci riconosciuti vada a scapito del nostro desiderio di privacy e della protezione dei nostri dati personali.

Ad Art Basel era esposta anche un’opera di Aaajiao, un artista di Shanghai: una macchina che stampa liste dei siti web bloccati dai firewall cinesi. Sondra Perry, un’artista afroamericana che vive in New Jersey, ha organizzato una performance dal titolo Resident evil che mescola scenari da videogioco con immagini girate da bodycam e servizi di telegiornali. L’installazione spinge i visitatori a riflettere su come i neri possano sopravvivere nonostante le minacce poste dalla sorveglianza.

In un’intervista Perry ha spiegato di essersi sforzata di comprendere in che modo le grandi aziende che controllano internet stanno definendo il nostro senso d’individualità e di autonomia. “Crediamo di essere individui che cercano un modo per esprimersi”, ha spiegato, “ma la verità è che siamo individui all’interno di un ambiente che vuole raccogliere i nostri dati e venderci delle cose”.

Da molto tempo gli artisti ci invitano a riflettere sulle culture in cui siamo immersi creando delle opere che aumentano la consapevolezza della realtà politica ed economica.

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Negli ultimi mesi su internet è circolato un video in cui Nina Simone spiega con un senso di urgenza come l’arte possa essere una forma di attivismo. “Per quanto mi riguarda, il dovere di un artista è riflettere sul proprio tempo”, dice. E aggiunge: “O saremo noi a definire e plasmare questo paese, oppure non sarà definito né plasmato”.

L’arte può essere uno specchio che ci mostra com’è davvero il mondo anche se non siamo pronti a osservarlo. Artisti come Perry, Falaschetti e Onuoha cercano di scuoterci dalla nostra compiacenza, spingendoci a guardare al di là della luce accecante dei nostri dispositivi.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato il 17 marzo 2017 a pagina 106 di Internazionale con il titolo “L’arte oltre la luce dei nostri schermi”.
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La versione originale è uscita il 27 dicembre 2016 sul New York Times Magazine.

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