05 dicembre 2016 16:59

Da più di una settimana a Tripoli circolano nuovi appelli alla disobbedienza civile. Molti attivisti hanno cercato in diverse occasioni di organizzare manifestazioni in città. Solo un piccolo gruppo di persone è riuscito a radunarsi, perché le forze armate (non sono sicuro di poterli definire poliziotti) hanno chiuso le strade di accesso alle piazze e hanno aumentato il numero di posti di blocco per impedirlo. È interessante notare in quali luoghi le persone hanno partecipato, soprattutto all’università di Tripoli, dove gli studenti avevano maggiori opportunità di organizzarsi. Altre parti della città però sono andate avanti come se niente fosse, e un’altra occasione di metterci d’accordo è sfumata.

Ho letto queste righe in un articolo apparso sul sito del Guardian: “Il governo della Libia, un paese ormai sull’orlo della bancarotta, deve affrontare la minaccia di una svalutazione forzata della moneta e la fine dei sussidi per il carburante, una misura quest’ultima che potrebbe innescare un’ondata di rabbia popolare e la caduta della traballante amministrazione di Tripoli sostenuta dalle Nazioni Unite”.

Non so come reagire a ciò che lo scrittore descrive come “una misura che potrebbe innescare un’ondata di rabbia popolare”. La frustrazione e le sofferenze dei cittadini libici hanno già raggiunto livelli indicibili.

Non temete, a tenere in piedi i nostri governi di certo non è il sostengo popolare né la mancanza di rabbia

Ogni giorno arricchiamo la nostra routine quotidiana con nuove domande. Oltre a quella di Albert Camus, “Meglio uccidermi o bere un caffè?”, adesso ci chiediamo anche: dovremmo comprare zucchero per il nostro caffè, o far finta che non ci piace il caffè zuccherato? Non è una domanda che riguarda la salute: il prezzo dello zucchero è salito del 200 per cento dall’oggi al domani, non in modo graduale come era già accaduto ai prezzi del pane, dell’olio, dei pomodori o del latte. Perciò la fine dei sussidi per i carburanti innescherà di sicuro, e non forse, un’ondata di rabbia.

Ma non temete, a tenere in piedi i nostri governi di certo non è il sostengo popolare né la mancanza di rabbia. È piuttosto la violenza e la repressione contro qualsiasi metodo non violento a cui le persone fanno ricorso per esprimere la loro frustrazione. Non importa se il primo ministro lascia che siano le milizie a fare il lavoro sporco senza farsi coinvolgere direttamente, oppure se finge semplicemente di non vedere queste violazioni perché non può fare nulla per fermarle. Le violenze accadono comunque.

Non credo che la disobbedienza civile potrà cambiare le cose. Il ricorso a forme di protesta non violente come il boicottaggio di solito ha lo scopo di influenzare l’azione legislativa o le politiche del governo, ma nel nostro caso su chi di preciso dovremmo fare pressione? Per non parlare dei settori di Tripoli da tempo paralizzati anche senza disobbedienza civile.

Non ci resta che aggiungere una nuova domanda, sui sussidi per il carburante. Soffriamo già abbastanza con il nostro sistema di trasporti.

Condannati a usare i mezzi pubblici
Un avvertimento a coloro che non possono resistere alla tentazione di esprimere i loro profondi commenti su quanto tutto questo sia frutto della rivolta contro Gheddafi e su quanto si vivesse meglio in Libia quando c’era lui. Prima di delineare un quadro a colori vivaci della Libia ai tempi di Gheddafi, lasciate che vi parli degli spostamenti quotidiani dei libici che andavano a scuola, all’università e a lavoro. Parlo dei libici che non potevano permettersi di comprare una macchina, quelli condannati a usare i mezzi pubblici, anche se questo nome non è preciso: non posso usare la parola “pubblico” quando parlo di mezzi di trasporto, perché semplicemente non esistono. In Libia non ci sono né autobus né treni pubblici, e nemmeno le stazioni. E questo non a causa della rivolta del 2011, è sempre stato così dalla metà degli anni ottanta.

Qui a Tripoli hai due possibilità: puoi saltare su un “taxi” (le macchine pitturate di bianco e nero) e assicurarti di negoziare l’importo che l’autista ti chiederà prima di aprire lo sportello, perché non esiste il tassametro, e nemmeno compagnie di taxi. Ogni autista stabilisce il prezzo in base al suo umore, perciò per lo stesso tragitto si possono pagare dai 5 ai 25 dinari libici, a seconda di quanto sei abile nel condurre le trattative.

Altrimenti, se non ti puoi permettere di pagare queste somme tutti i giorni, devi entrare a far parte del club di chi è costretto a salire sull’“Iveco” (i minibus Iveco Turbo daily di prima generazione). È l’unico mezzo di trasporto disponibile in città, di proprietà degli autisti. Devi andare in centro utilizzando una delle tratte. Le “stazioni” non sono altro che uno spazio in mezzo alla strada grande abbastanza per poter parcheggiare. Te ne stai in piedi in mezzo alla folla e al caos, chiedendo e ascoltando con attenzione il nome della tua destinazione, mentre ogni autista urla il nome della zona verso cui è diretto. Una volta individuato il mezzo, ti siedi e aspetti che l’autista riempia tutto il minibus fino a non riuscire quasi a chiudere lo sportello, a prescindere da quanto tempo possa volerci. Quando l’autista è soddisfatto, mette in moto. I minibus sono vecchi di almeno vent’anni, ma il vero pericolo sono gli autisti. Ogni libico che possiede una macchina sa bene che è meglio non guidare dietro uno di questi minibus, perché gli autisti sono spericolati. Si spostano velocemente da sinistra a destra, frenano a caso e si fermano all’improvviso per caricare o far scendere un passeggero.

Guidano come se stessero andando a un picnic, fumano, alzano la musica a un volume talmente alto da costringerti ad alzarti e a urlare quando stai per arrivare a destinazione per assicurarti che l’autista senta e non si fermi tre isolati più in là. Attento però a non gridare troppo forte, per non far arrabbiare l’autista.

Non biasimo i non libici perché non conoscono queste piccole cose. Solo chi vive qui può capire, ma non chi sta qui con un biglietto aperto che gli permette di andarsene quando vuole, perché questa possibilità gli impedisce di apprezzare in pieno l’esperienza. Sto parlando di quando si è in caduta libera senza rete di sicurezza, dei vantaggi annessi al pacchetto premium a cui hai diritto se nasci e vivi in Libia. Sto parlando di chi non ha mai la possibilità di trattare la Libia come un albergo da cui potersene andare quando non è più soddisfatto del servizio in camera. Non ho nulla contro gli avventurieri, i turisti, i giornalisti, tutti quelli che possono andarsene quando lo desiderano. Ma il fatto che la maggior parte dei nostri politici appartenga alla loro stessa categoria non fa che alimentare la rabbia.

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