10 marzo 2021 13:30

Nel novembre del 2020, dopo la devastante sconfitta dell’Armenia nella seconda guerra del Nagorno Karabakh, il futuro politico del primo ministro armeno Nikol Pashinyan sembrava finito. Come è riuscito a rimanere al potere, nonostante le recenti proteste di piazza e le richieste di dimissioni da parte dei generali del paese, e nonostante sia diventato noto come l’uomo che è costato all’Armenia la maggior parte del territorio conteso e che ha infranto l’illusione della potenza militare del paese?

All’inizio di dicembre 2020, i leader di diciassette partiti di opposizione sono riusciti ad accordarsi e a eleggere un leader: Vazgen Manukyan, un veterano che aveva servito come ministro della difesa durante la prima guerra del Nagorno Karabakh tra il 1992 e il 1994, quando vennero conquistati i territori ora persi. L’opposizione unita aveva lanciato un ultimatum chiedendo le dimissioni di Pashinyan. Il primo ministro, tuttavia, si è limitato a ignorarlo.

Il Nagorno Karabakh dopo il cessate il fuoco

L’opposizione ha poi pianificato a lungo un’ambiziosa protesta per il 20 febbraio. Ma alla fine il numero effettivo dei partecipanti è stato di 13-20mila persone, e la colpa è stata attribuita al cattivo tempo. La sera sono seguite diverse piccole manifestazioni. Il 25 febbraio è poi arrivata quella che è sembrata la resa dei conti, quando i generali armeni hanno firmato una lettera collettiva che chiedeva le dimissioni di Pashinyan. Ma anche questa mossa non ha avuto alcun effetto. E Pashinyan è riuscito a far scendere in piazza i suoi sostenitori in un numero almeno uguale a quelli dell’opposizione.

Il primo ministro ha definito le proteste un “tentato colpo di stato militare”, ma tutto è nato da una sua stessa gaffe. Pashinyan aveva detto in un’intervista che, durante l’ultima guerra con l’Azerbaigian, i missili russi Iskander usati dalle forze armate armene “o non sono esplosi affatto o lo hanno fatto solo al dieci per cento”. Non è chiaro se intendesse dire che era esploso solo un missile su dieci, o che la maggior parte delle componenti di un missile non era riuscita a esplodere.

Con ogni probabilità non era vera nessuna delle due cose. L’Azerbaigian non ha mai denunciato di essere stato attaccato con missili Iskander, anche se ha parlato diffusamente di altri missili. E la risposta del ministero della difesa russo all’affermazione di Pashinyan è stata che non è stato registrato nessun lancio di Iskander, e che tutti i missili sono rimasti nei depositi di armi armeni.

Un vicecapo di stato maggiore armeno, interpellato dai giornalisti per spiegare la dichiarazione di Pashinyan, l’ha liquidata con una risata. Pashinyan lo ha licenziato, provocando il “colpo di stato” che alla fine si è ridotto alla lettera collettiva. Il primo ministro ha anche cercato di licenziare il capo di stato maggiore, ma senza successo: il presidente della repubblica, Armen Sarkissian, ha fatto valere il suo diritto di respingere l’ordine.

Le dichiarazioni di Mosca suggeriscono che il Cremlino rimarrà fuori dalla crisi armena, a condizione che il cessate il fuoco resti in vigore

Nessuna delle due parti è stata in grado di fare ulteriori progressi. L’opposizione ha chiesto una sessione straordinaria del parlamento per revocare la legge marziale e far dimettere Pashinyan, ma senza successo: i sostenitori del primo ministro sono ancora la maggioranza in parlamento.

Una teoria diffusa in Armenia è che i generali si siano espressi contro Pashinyan per volere di Mosca, che si sarebbe infuriata a causa delle critiche del primo ministro alle sue armi. Tuttavia, se fosse così, i generali non si sarebbero limitati a una lettera. Inoltre, quella stessa sera, il presidente russo Vladimir Putin ha parlato con Pashinyan e ha fatto un appello a “mantenere la pace e l’ordine” e a “risolvere la situazione in maniera legale”.

Le dichiarazioni di Mosca suggeriscono che il Cremlino rimarrà fuori dalla crisi armena, a condizione che l’accordo di cessate il fuoco del 9 novembre 2020 rimanga in vigore: e non ci sono ragioni per dubitare che sarà così. Il Cremlino sta cominciando a vedere l’Armenia come vede il Kirghizistan e l’Abkhazia: può darsi che la situazione nel paese non sia chiara, ma non c’è pericolo che prendano il potere dei politici non graditi a Mosca. Il Cremlino riconosce Pashinyan come il politico più popolare d’Armenia, e desidera quindi mantenere lo status quo.

I sondaggi mostrano anche che Pashinyan mantiene un buon livello di sostegno nel paese: nonostante l’atmosfera tesa, la società armena non è unificata dall’odio per il regime attuale. Regna, piuttosto, l’apatia. Anche lo scorso novembre, quando le emozioni per la sconfitta erano al massimo, circa il trenta per cento della popolazione sosteneva Pashinyan. I risultati di un recente sondaggio sono ancora più interessanti. Agli intervistati è stato chiesto di valutare i politici su una scala da 1 a 5: Pashinyan ha ricevuto un punteggio di 2,8, contro il 2 dell’ex presidente Robert Kocharyan, l’1,7 di un altro ex presidente, Serzh Sargsyan (entrambi gli ex presidenti avevano espresso sostegno ai generali), e all’ 1,6 del leader dell’opposizione Manukyan (che si è alleato con Kocharyan).

In altri termini, può darsi che Pashinyan non sia molto popolare, ma i suoi rivali lo sono ancora meno. Una delle ragioni principali è l’incapacità dell’opposizione di proporre una reale alternativa politica.

Basta con la guerra
Anche se l’opposizione riuscisse a esautorare Pashinyan, non sarebbe in grado di cambiare i risultati della seconda guerra del Nagorno Karabakh: non solo a causa delle circostanze geopolitiche ma anche perché il popolo armeno non vuole più essere in guerra.

I sondaggi mostrano che solo il 31 per cento degli armeni è favorevole a cercare di riconquistare i territori persi nella guerra. Il 28 per cento è disposto ad accettare una “stabilizzazione nel quadro dei confini esistenti”, e un altro 3 per cento sarebbe pronto a cedere Stepanakert, capitale dell’autoproclamata repubblica del Nagorno Karabakh controllata dagli armeni, solo per porre fine al conflitto.

Per questo l’opposizione non era entusiasta all’idea di organizzare elezioni anticipate, una prospettiva che subito dopo la sconfitta sembrava inevitabile e logica. Ma l’opposizione ha capito che se il duo Kocharyan-Manukyan dovesse salire al potere, dovrebbe andare avanti nel solco segnato da Pashinyan. I compiti che riserva il futuro sono complessi: delimitare un nuovo confine con l’Azerbaigian in villaggi che appena sei mesi fa erano a settanta chilometri dalle posizioni azere; coordinare le vie di trasporto verso l’exclave azera di Nakhchivan e verso la Turchia attraverso l’Armenia; e trovare un compromesso sulle aree rimanenti del Nagorno Karabakh per mantenere una qualche presenza armena in loco.

In un momento come questo, è meglio rimanere all’opposizione che mettere a repentaglio la propria posizione nelle stanze del potere. L’opposizione preferirebbe che fosse Pashinyan a fare il lavoro pesante.

Il popolo armeno può probabilmente percepire questa mancanza di una vera alternativa, ed è per questo che delle proteste propagandate come storiche hanno una partecipazione così limitata. Ciò che spinge la gente in piazza è la visione di un futuro migliore: un futuro in cui non c’è corruzione, il governo ascolta il popolo e i nemici sono sgominati. Pashinyan aveva promesso questa “Armenia del futuro” nel 2018. Non è stato all’altezza delle aspettative, ma è anche difficile credere che chi è venuto prima di lui avrebbe potuto costruire un simile paradiso terrestre.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal Moscow Times.

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