17 giugno 2022 12:16

La convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati, redatta nel 1951, definisce rifugiato “una persona che si trova fuori del proprio paese di residenza o nazionalità a causa di un timore fondato di essere perseguitata per motivi legati alla razza, alla religione, alla nazionalità, all’appartenenza a un particolare gruppo sociale o a una sua opinione politica”. Il primo criterio preso in considerazione è quindi la razza.

Perché la razza occupa un posto così centrale? Probabilmente perché gran parte del testo è stata redatta da ex rifugiati ebrei sfuggiti all’olocausto e dai loro alleati. Gli autori della convenzione hanno aggiunto due clausole molto importanti. La prima è l’articolo 3, che vieta la discriminazione nel paese ospitante in base a “razza, religione o paese d’origine”. La seconda è il principio di non respingimento, che proibisce ai paesi ospitanti di ricondurre i migranti nel paese d’origine, esponendoli a condizioni pericolose.

Tra le altre considerazioni che hanno determinato la portata finale della convenzione ci sono la caduta degli imperi multinazionali e le barriere razziali che i paesi ricchi hanno eretto per proteggersi dai flussi migratori.

La scappatoia statunitense
Proprio il razzismo influisce negativamente sulle vite degli haitiani, sia in patria sia all’estero. Infatti, oggi, i migranti di Haiti raramente hanno diritto all’asilo. Le operazioni di pace delle Nazioni Unite guidate dal Brasile e l’esternalizzazione in America Latina dei controlli alla frontiera da parte del governo degli Stati Uniti complicano ulteriormente la procedura d’asilo per i cittadini dell’isola.

Gran parte del razzismo nei confronti degli haitiani nasce all’estero. Alla fine del settecento i rivoluzionari haitiani cacciarono i colonizzatori francesi e abolirono la schiavitù. Poco tempo dopo Haiti diventò un rifugio per le vittime di schiavitù e colonialismo in altri paesi. Ma la Francia e altri stati chiesero un risarcimento per la loro “proprietà” perduta, ovvero per gli esseri umani di cui non potevano più disporre. E così Haiti ha ripagato il suo debito fino al ventesimo secolo inoltrato.

Dal 1915 al 1934 l’esercito degli Stati Uniti ha occupato Haiti con conseguenze politiche e sociali durature. Nel 1937 il dittatore dominicano Rafael Trujillo ordinò il massacro di migliaia di haitiani che vivevano nei pressi del confine.
Dagli anni cinquanta fino agli anni ottanta gli Stati Uniti hanno sostenuto la dittatura dei Duvalier. Da allora le ingerenze esterne nella politica haitiana sono state quasi costanti.

Davanti all’instabilità politica ed economica, molti haitiani si trasferiscono all’estero per migliorare le proprie condizioni di vita e quelle dei parenti rimasti in patria. Per gli haitiani i confini tra diaspora, migrazione economica e asilo politico sono spesso sfumati. Ma dal punto di vista legale queste categorie fanno una grande differenza.

A partire dal 1981 gli Stati Uniti hanno cominciato a intercettare i migranti in fuga da Haiti, processando le richieste di asilo in mare. In questo modo Washington ha creato una scappatoia che ha permesso di aggirare il principio di non respingimento, rimandando a casa gli haitiani prima che entrino nel territorio statunitense.

Basandosi su questo precedente, oggi i paesi ricchi adottano sempre più spesso un meccanismo di “controllo a distanza” dell’immigrazione, in acque internazionali o in paesi terzi. L’esternalizzazione della sicurezza e del rispetto dei diritti umani è in grande crescita, con diversi paesi dell’America Latina che sono stati incaricati di accogliere i rifugiati e di gestire le missioni di pace delle Nazioni Unite.

Il ruolo del Brasile
Nel 2004 il presidente haitiano democraticamente eletto Jean-Bertrand Aristide è stato deposto per la seconda volta, probabilmente con l’aiuto degli Stati Uniti. Canada, Francia, Stati Uniti e altri attori di primo piano hanno rapidamente riconosciuto il regime che ha sostituito Aristide. Qualche mese dopo, Haiti ha ricevuto una missione di pace, la United nations stabilization mission in Haiti, conosciuta come Minustah.

Fino al 2017 la forza militare multinazionale della Minustah è stata gestita dai generali brasiliani, con una pesante ingerenza da parte di Stati Uniti, Canada e Francia. Per depoliticizzare la situazione, i generali avevano ricevuto l’ordine di usare la forza per risolvere il problema delle “bande”. I quartieri urbani dove si presumeva operassero le bande erano precisamente quelli popolati dalla base elettorale di Aristide.

La parola pacificação era utilizzata per indicare la colonizzazione dei popoli indigeni

In un libro sui comandanti militari della Minustah si legge che i generali hanno definito i quartieri poveri di Port-au-Prince con il termine “favelas”, suggerendo che il problema fosse legato esclusivamente alla sicurezza.

Un altro termine usato dai generali è pacificação. Non si tratta di una semplice traduzione del termine inglese peacekeeping, cioè di mantenimento della pace, perché storicamente la parola pacificação è stata l’eufemismo usato per indicare la colonizzazione dei popoli indigeni. È anche un riferimento al lavoro delle unità della polizia di Rio de Janeiro chiamate Unidades da policia pacificadora. Durante quel periodo si è registrato un intenso scambio di personale di sicurezza, idee e pratiche tra Port-au-Prince e Rio de Janeiro.

Dopo il devastante terremoto del 2010, che ha lasciato senza casa centinaia di migliaia di sopravvissuti, le autorità brasiliane hanno cominciato a preoccuparsi dell’arrivo degli haitiani nel loro paese. La ricerca che sto conducendo con i professori Martha Balaguera e Luis van Isschot dell’università di Toronto analizza come gli haitiani sono trattati in Brasile, in Colombia e in Messico.

Le politiche migratorie brasiliane sono determinate dal Conselho nacional de imigração (Cnig). Nei verbali degli incontri del Cnig i funzionari del governo citano il “rapporto speciale” tra il Brasile e Haiti (l’operazione Minustah) come un motivo per accogliere i migranti haitiani. Tuttavia gli stessi generali sottolineano che gli haitiani non vanno considerati come rifugiati in quanto sono spinti a partire dal terremoto, e in nessun modo riconoscono il contributo del Brasile all’instabilità politica ed economica di Haiti.

I funzionari brasiliani hanno anche espresso la preoccupazione che gli haitiani possano “stabilire una diaspora più permanente” in Brasile. Questo approccio è coerente con la lunga storia brasiliana fatta di politiche migratorie discriminatorie dal punto di vista razziale e favorevoli agli europei. I funzionari brasiliani hanno creato un visto umanitario specifico per i migranti haitiani. Il visto garantisce uno status legale temporaneo, ma non offre la stessa protezione dalla deportazione né le stesse risorse governative rispetto al diritto d’asilo.

La rotta verso nord
Con il peggioramento delle condizioni economiche in Brasile, molti haitiani si sono spostati a nord nella speranza di raggiungere gli Stati Uniti o il Canada. Spesso passano attraverso la Colombia e il Darien gap, una zona pericolosa che collega il paese con l’America Centrale.

In Colombia gli haitiani si uniscono ad altri flussi di migranti di cui fanno parte anche i colombiani di origine africana o indigena costretti a partire dalla prepotenza dei paramilitari e delle élite locali. Altri vengono dal Venezuela, dall’Africa o dall’Asia. Più a nord, i migranti si mescolano ai cittadini dei paesi dell’America Centrale in fuga dalla violenza dei narcotrafficanti. Da lì, le persone raggiungono il Messico, dove gli Stati Uniti hanno esternalizzato la gestione delle richieste d’asilo. A quel punto molti abbandonano le speranze e restano a Tijuana.

Nel Messico del sud è stata creata una sorta di prigione a cielo aperto per evitare che i profughi sprovvisti di documenti raggiungano il nord. Quelli che riescono a entrare nel territorio degli Stati Uniti sono arrestati e successivamente deportati.

La convenzione sui rifugiati del 1951 è stata pensata per proteggere le persone in fuga dalle condizioni create dal genocidio degli ebrei compiuto dai nazisti. Ma il sistema relativo ai rifugiati non riesce a evitare le forme aggressive e spesso mortali di razzismo che colpiscono gli haitiani. Questo razzismo transnazionale è chiaramente alimentato dal comportamento dei paesi di destinazione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito su The Conversation. Internazionale ha una newsletter che racconta cosa succede in America Latina. Ci s’iscrive qui.

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