18 maggio 2020 13:01

Un giorno del gennaio del 2019 la sedicenne Miriam (i nomi delle ragazze sono stati cambiati) è uscita dalla sua tenda, nel campo per sfollati di Madinatu, nel nordest della Nigeria, per andare a prendere l’acqua ed è stata avvicinata da una donna di mezza età che la ragazzina conosceva con il nome di Zia Kiki. La donna ha chiesto a Miriam se era interessata a trasferirsi nella città di Enugu, a sud, per lavorare come domestica.

Miriam, che adesso ha 17 anni, non ci ha pensato due volte prima di accettare l’offerta e il giorno dopo ha cominciato a prepararsi per il suo viaggio verso est. Ne ha parlato con la cugina Roda, di 17 anni, consigliandole di andare a parlare con Zia Kiki. Quando la mattina dopo Roda ha incontrato Zia Kiki le ha chiesto se ci fosse un lavoro anche per lei. La donna ha risposto subito di sì e Roda ha fatto le valigie. “Eravamo entrambe entusiaste di poter andare a Enugu”, racconta Miriam. “Avevamo sofferto molto per quattro anni ed eravamo felici di andare in un posto nuovo per iniziare una nuova vita”.

Entrambe le ragazze, le cui case a Bama si affacciavano sullo stesso cortile, erano scappate nel 2017, quando Boko haram aveva attaccato la cittadina dando alle fiamme le case e rapendo donne e bambini. Miriam e Roda erano fuggite lasciandosi alle spalle i familiari. Non sanno cosa ne sia stato di loro. Le due ragazzine hanno camminato per diversi giorni prima di arrivare a Madinatu, dove sono rimaste per quasi due anni. Qui Miriam e Roda sono vissute insieme in una piccola capanna nel campo che ospita più di cinquemila persone in fuga come loro da Boko haram. La vita nel campo era dura. Il cibo era scarso e gli sfollati dovevano chiedere l’elemosina per le strade della cittadina vicina per riuscire a mangiare a sufficienza. Perciò le ragazzine hanno afferrato al volo l’opportunità di un lavoro retribuito a Enugu. Non hanno avuto il tempo di dire a nessuno dove stessero andando.

Prima hanno viaggiato fino a Maiduguri con Zia Kiki. A questo è seguito un tragitto di 12 ore verso Abuja. Lì hanno trascorso la notte a casa di una donna che conosceva Zia Kiki. L’indomani, dopo altre nove ore di viaggio, hanno raggiunto Enugu. Zia Kiki le ha portate in un compound e le ha consegnate a una donna anziana che lei chiamava Mma, raccomandando loro di fare tutto ciò che la donna ordinava. “Il compound aveva due appartamenti con tre camere da letto ciascuno, piene di giovani ragazze alcune delle quali incinte”, racconta Miriam. “Zia Kiki ci ha detto che avremmo lavorato lì”. All’inizio le ragazze hanno pensato che il loro lavoro sarebbe consistito nel pulire l’edificio e fare le faccende domestiche, come Zia Kiki aveva fatto loro credere. I loro nuovi datori di lavoro però la pensavano diversamente.

In ostaggio
“Mma ci ha chiesto di stare in due camere separate la prima notte”, spiega Miriam. “Eravamo sorprese, perché le altre ragazze presenti nell’edificio condividevano le stanze, alcune delle quali ospitavano anche quattro persone”. Quella notte, secondo quanto racconta Miriam, un uomo è entrato nella sua stanza, le ha ordinato di spogliarsi, le ha tenuto ferme le mani e l’ha stuprata. La stessa cosa è accaduta a Roda, ma il suo stupratore è stato molto più violento. “Quando ho cercato di urlare mi ha coperto la bocca e mi ha dato uno schiaffo fortissimo”, racconta Roda. “Se mi vedeva piangere mi schiaffeggiava ancora di più”. Il giorno dopo le ragazze sono state trasferite in stanze insieme alle altre. Venivano mandate nelle stanze singole solo quando veniva richiesto loro di “lavorare”. Entrambe raccontano di essere state stuprate quasi ogni giorno da parecchi uomini diversi.

Secondo loro, Mma e Zia Kiki lavorano per lo stesso cartello di trafficanti di esseri umani e Mma è la leader del gruppo. L’unica cosa di cui erano certe, tuttavia, è che le due donne comunicavano tra loro e con gli uomini in igbo, la lingua parlata nella Nigeria sudorientale.

Nel giro di un mese entrambe erano incinte. Nonostante ciò hanno continuato a essere stuprate. “Non importava se eri incinta di sei settimane o di sei mesi”, racconta Roda. “Se uno degli uomini ti voleva non potevi dire di no”. Scappare era inutile, spiegano, perché il complesso era sorvegliato da uomini armati. Quando Miriam e Roda sono arrivate, nell’edificio vivevano una decina di ragazze. I numeri però cambiavano man mano che le ragazze partorivano e venivano mandate via, sostituite da altre ragazze portate lì per produrre altri bambini per il cartello. Miriam ha partorito un maschietto con l’assistenza di una levatrice fatta venire dall’esterno. Tuttavia suo figlio le è stato portato via. Tre giorni dopo è stata bendata e portata a una stazione degli autobus. Qui i suoi trafficanti l’hanno messa su un veicolo diretto a nord.

“Non volevano che sapessi come arrivare al compound, ecco perché mi hanno coperto il volto”, spiega. “Mi hanno dato ventimila naira (circa 51 euro) per il viaggio fino alla mia destinazione”. Ha raggiunto prima Abuja, dove ha trascorso una notte per strada, poi è salita a bordo di un veicolo commerciale ed è riuscita a tornare a Maiduguri.

“I bambini costano di più”
Miriam non sa a quanto è stato venduto il suo bambino. “Alcuni trafficanti fanno andare via le vittime dopo il parto perché sono convinti che se fanno restare le ragazze troppo a lungo, queste ultime potrebbe escogitare un piano per denunciare il traffico”, spiega Abang Robert, responsabile per le relazioni con il pubblico della ong Caprecon development and peace initiative, che si occupa della riabilitazione delle vittime di traffico di esseri umani in Nigeria. “Temono il sabotaggio”. Queste “fabbriche di neonati” sono più numerose nella zona sudorientale della Nigeria, dove le forze di polizia hanno condotto diverse incursioni, tra cui una l’anno scorso grazie alla quale sono state salvate diciannove ragazze incinte e quattro bambini. Donne e ragazzine vengono tenute prigioniere con lo scopo di farle partorire bambini che vengono poi venduti illegalmente a genitori adottivi, oppure sono costretti a lavorare, sfruttati nella prostituzione o, come suggeriscono diversi rapporti, uccisi nell’ambito di rituali.

“I bambini costano più delle bambine in questo settore”, dichiara nel suo ufficio di Enugu Comfort Agboko, direttrice della filiale locale dell’agenzia nigeriana contro il traffico di esseri umani, la National agency for the prohibition of trafficking in persons (Naptip). “I bambini vengono spesso venduti per cifre che vanno da settecentomila a un milione di naira (tra 1.850 e 2.500 euro), mentre le bambine vengono vendute per cifre comprese tra cinquecentomila e settecentomila naira”. La maggioranza degli acquirenti sono coppie che non riescono a concepire. Anche se chiunque venga colto a comprare, vendere o avere altri ruoli nel traffico di bambini sia punito dalla legge, il traffico di neonati è molto diffuso a Enugu.

Negli ultimi anni i funzionari per la sicurezza hanno condotto diverse operazioni sotto copertura che hanno preso di mira cartelli sospettati di traffico di neonati le cui attività sarebbero supportate, secondo il governo dello stato di Enugu, da agenzie di sicurezza e da funzionari statali privi di scrupolo. Per evitare i sospetti nelle comunità locali, spiegano gli esperti, le fabbriche di neonati spesso vengono presentate come orfanotrofi. Secondo Agboko le persone che ricevono i bambini da queste strutture non sono consapevoli del fatto che i piccoli non sono dei veri orfani, o non sono interessate a saperlo. Negli ultimi anni la Naptitp ha arrestato e condannato diverse persone coinvolte nella vendita di neonati nel sudest del paese, spiega Agboko. Al momento c’è una mezza dozzina di casi all’esame del sistema giudiziario. “Stiamo lavorano assieme all’associazione degli operatori di orfanotrofi in tutta la regione per identificare, arrestare e condannare questa gente”, aggiunge.

Non ci sono dati ufficiali sul numero di bambini comprati e venduti ogni anno in Nigeria, né delle ragazze sfruttate dai trafficanti di esseri umani. Secondo le stime delle Nazioni Unite tuttavia “ogni anno in Nigeria le persone vittime di traffico di esseri umani sono tra 750mila e un milione; nel 75 per cento dei casi il traffico avviene tra uno stato e l’altro del paese, nel 23 per cento dei casi all’interno di uno stesso stato e nel 2 per cento dei casi verso l’estero”.

Traffico di esseri umani
Come Miriam, anche Roda è stata scaricata dopo aver dato alla luce un maschio. Le cugine si sono ritrovate a Madinatu, dove oggi vivono insieme in una piccola casetta di fango, non distante dal campo da cui sono state coinvolte nel traffico. “Per fortuna siamo arrivate lo stesso giorno”, racconta Miriam, che ha passato diverse settimane per le strade di Abuja prima di riuscire a tornare nel nordest del paese. “Abbiamo pensato che non era più sicuro stare nel campo, così abbiamo parlato con il proprietario di questo posto che ci ha permesso di stare qui”. Per guadagnarsi da vivere adesso le due ragazze preparano e vendono torte di arachidi in un piccolo chiosco davanti al loro alloggio.

Non sono state le prime a finire nelle reti del traffico di esseri umani dal campo di Madinatu. Ci sono notizie relative a diverse ragazze che dal campo vengono portate in altre città della Nigeria e all’estero, in paesi come l’Italia, la Libia, il Niger o l’Arabia Saudita. Alle vittime spesso viene promesso un buon lavoro, ma alla fine si ritrovano sfruttate o ridotte in schiavitù. È un fenomeno diffuso in tutta la regione nordorientale. Dal rapporto del 2019 sul traffico di esseri umani del dipartimento di stato di Washington emerge che “lo sfruttamento sessuale, compreso il traffico di sfollati nei campi profughi, negli insediamenti e nelle comunità nei dintorni di Maiduguri continua a essere un problema pervasivo”. Nel rapporto si legge inoltre come alcuni funzionari di polizia siano complici di queste attività.

La Naptip si dice consapevole dell’alto numero di casi di traffico di esseri umani a Madinatu e sta intensificando gli sforzi per affrontare il problema in particolare nel campo profughi. “L’ufficio ha aumentato le attività di sorveglianza nel campo”, afferma Mikita Ali, a capo dell’ufficio della Naptip che copre la regione nord-orientale. “Lavoriamo con chi gestisce il campo e con i funzionari del campo a cui abbiamo dato i nostri numeri gratuiti e che abbiamo invitato a chiamare se sospettano di casi di traffico di esseri umani”.

I residenti del campo di Madinatu continuano però a essere preoccupati per il numero di casi. Secondo i leader della comunità l’assenza di servizi adeguati come l’acqua potabile o i fornelli da cucina costringe le persone a percorrere distanze considerevoli a piedi per procurarsi acqua o legna da ardere, e questo le rende vulnerabili ai trafficanti di esseri umani che le catturano. “Se avessimo facilità di accesso all’acqua e alla legna da ardere non staremmo qui a parlare di traffico di esseri umani”, afferma Mohammed Lawan Tuba, un leader di comunità di Madinatu. “I criminali approfittano dei nostri bambini quando escono per procurarsi ciò che serve a mantenere in vita se stessi e le loro famiglie”.

Gli attivisti per i diritti umani stanno conducendo campagne di sensibilizzazione che hanno l’obiettivo di educare gli sfollati ai pericoli del traffico di esseri umani e insegnare loro a riconoscerne i segnali all’interno del campo. Tuttavia Yusuf Chiroma, capo della Borno community coalition, un gruppo di operatori umanitari che prestano assistenza ai sopravvissuti dalle incursioni di Boko haram attraverso programmi di formazione, afferma: “Gli sfollati di Madinatu sopravvivono a fatica, il governo non dà loro abbastanza cibo, per questo è così facile sfruttare chi è alla disperata ricerca di un lavoro”. “Ai programmi di sensibilizzazione devono corrispondere adeguati livelli di sicurezza, disponibilità di cibo e di servizi sociali forniti dal governo. Solo così sarà possibile fermare il traffico di esseri umani”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato da Al Jazeera.

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