28 luglio 2020 15:14

Questo articolo è uscito nel numero 1351 di Internazionale.

La porta si apre e un signore anziano in sedia a rotelle entra nell’aula del tribunale. Ha il volto nascosto da una cartellina rossa, che tiene davanti a sé con mano ferma. Per non farsi riconoscere porta anche un paio di occhiali da sole neri e un cappello scuro a tesa larga. Ha tutti gli occhi puntati su di sé, ma non ha nessuna voglia di ricambiare gli sguardi. Rimane seduto in silenzio, affiancato dalla figlia e dall’avvocato, cercando di sottrarsi all’obiettivo del fotografo. Passano i minuti e un nervoso senso d’attesa riempie l’aula. La scena è pronta. Il sipario si alza. Un grande dramma umano sta per cominciare.

Poco dopo il fotografo e il cameraman vengono invitati a uscire. L’accusato può così abbassare la cartellina e mostrare il volto. Dimostra meno dei suoi novantatré anni. Ha l’aria vigile, gli occhi scuri e i capelli bianchi tagliati corti, con cura. La giudice che presiede il processo apre l’udienza chiedendogli con voce decisa: “Riesce a sentirmi?”.

“Sì”, risponde l’uomo.

“Lei è Bruno Dey?”.

“Sì”.

È il 17 ottobre 2019 e nell’imponente sede del tribunale penale di Amburgo si è appena aperto un processo storico sotto vari aspetti. Dey è accusato di complicità in un crimine avvenuto più di settant’anni fa: l’uccisione di almeno 5.230 prigionieri nel campo di concentramento nazista di Stutthof (oggi Sztutowo, in Polonia).

All’epoca Dey aveva 17 anni ed era nel reparto delle Ss incaricato di sorvegliare i campi. Dey ha ammesso di aver servito come guardia a Stutthof dall’agosto 1944 all’aprile 1945, ma respinge l’accusa di aver avuto un ruolo in quelle uccisioni, anche solo come complice. Il nome su cui pesano i capi d’accusa è il suo, ma nell’aula tutti sanno che Dey non sarà l’unico a essere giudicato. Come ogni processo legato ai crimini del regime nazista, quello di Amburgo solleva delle domande – difficili, scomode – che vanno ben oltre la colpevolezza di un singolo individuo.

Superare il passato
Dey è una rarità. I presunti autori di crimini nazisti in vita sono pochi ormai, e quelli in grado di affrontare un processo lungo mesi ancora meno. Quello di Dey potrebbe essere l’ultimo processo di questo tipo. E la cosa non è passata inosservata. Decine di giornalisti e osservatori sono venuti ad Amburgo per assistere alla prima udienza. Tra loro c’è Efraim Zuroff, direttore dell’ufficio di Gerusalemme del Simon Wiesenthal center, un centro di ricerca sull’olocausto che dà la caccia ai sospetti criminali nazisti. Durante una pausa mi spiega che, con il nazionalismo e l’antisemitismo che rialzano la testa, il processo di Amburgo è una “battaglia per l’anima della Germania”. Zuroff sa benissimo, e lo sanno anche i giudici, che quello di Bruno Dey è il processo delle ultime occasioni: l’ultima occasione per i sopravvissuti di raccontare la loro storia in un tribunale, l’ultima occasione per un uomo ormai anziano di redimersi davanti a un giudice, l’ultima occasione per la Germania e il suo sistema giudiziario di mostrare che, per quanto tardi, giustizia sarà fatta. L’ultimo punto è particolarmente delicato. I tedeschi sono generalmente fieri di come il loro paese ha affrontato il passato. Uniti in uno sforzo collettivo chiamato Vergangenheitsbewältigung (parola traducibile con “superamento del passato”) si sono impegnati a tener vivo il ricordo dell’olocausto e ad accettare la responsabilità unica e incancellabile della Germania nello sterminiodi sei milioni di ebrei. I crimini dei nazisti sono insegnati a scuola e ricordati da monumenti in ogni angolo del paese. Da questi crimini la Germania moderna e democratica ha tratto due grandi comandamenti: non dimenticare mai, non ripetere mai.

Una sola sfera della vita pubblica è rimasta estranea a questo rigore morale: il sistema giudiziario penale. Per gran parte del dopoguerra, gli autori dei crimini nazisti non hanno dovuto temere i procuratori e i giudici del paese, molti dei quali erano stati a loro volta fedeli servitori del regime hitleriano. Secondo gli storici, i tedeschi implicati nell’olocausto e in altri crimini nazisti furono circa 250mila. Alcuni dei principali colpevoli furono giudicati dai tribunali alleati tra il 1945 e il 1949 e dalla giustizia polacca. Ma il grosso dei casi è stato lasciato alla Germania, che ha fallito miseramente nel compito.

Se c’erano colpe, pensavano, erano da attribuire a Hitler e ai gerarchi nazisti, non ai cittadini che – si diceva – avevano solo eseguito gli ordini

Nell’immediato dopoguerra i procuratori tedeschi hanno avviato indagini su circa 170mila persone, ma solo 6.700 sono state dichiarate colpevoli e condannate. Dei 6.500 uomini e donne che servirono ad Auschwitz, solo una cinquantina è stata condannata dai tribunali tedeschi. Moltissimi criminali nazisti non sono mai stati chiamati ad affrontare i giudici, e quelli processati spesso hanno ricevuto condanne minime. Molti sono stati graziati dalle forze di occupazione alleate o salvati dalle generose leggi di amnistia adottate dal governo della Repubblica Federale Tedesca dopo il 1949.

La riluttanza a punire il più grande crimine della storia dell’umanità nasce in parte da considerazioni pratiche: perseguire legalmente tutti i tedeschi coinvolti nell’olocausto avrebbe portato il sistema giudiziario del paese al collasso. Ma la verità è che, tranne in pochi casi, non c’è mai stata neanche la volontà di provarci: traumatizzati dalla guerra, quasi tutti i tedeschi volevano voltare pagina il prima possibile. Se c’erano colpe – pensavano – erano da attribuire a Hitler e alla cerchia più ristretta dei gerarchi nazisti, non ai milioni di cittadini tedeschi che – come si diceva – avevano solo eseguito gli ordini.

In effetti i pochi casi finiti in tribunale spesso riguardavano persone che si erano comportate con particolare sadismo. Se si escludono alcune significative eccezioni, come il processo di Francoforte sullo sterminio ad Auschwitz negli anni sessanta, non si è mai davvero cercato di esaminare le responsabilità criminali lungo tutta la catena di comando e di far luce sull’intera macchina dello sterminio nazista.

Gli archivi dello Zentrale Stelle di Ludwigsburg, aprile 2018. (Thomas Kienzle, Afp)

In questo senso quello di Dey è un caso emblematico. Dey non ha mai fatto mistero del suo passato e nel 1982 è stato interrogato a lungo dalla polizia. Decine di migliaia di possibili colpevoli – guardie, comandanti, medici, burocrati e soldati – hanno trascorso gli ultimi anni della loro vita come persone rispettabili inserite nelle loro comunità, senza doversi mai coprire il viso in un’aula di tribunale o passare un solo giorno dietro le sbarre. È l’argomento avanzato da Stefan Waterkamp, l’avvocato di Dey, nel suo primo intervento in aula: “Per più di settant’anni nessuno in Germania si era mai interessato a una semplice guardia che non ha mai commesso un omicidio”. La frase, che dovrebbe trasmettere lo smarrimento e il senso d’ingiustizia provati dall’accusato, non è però del tutto esatta. Persone interessate a uomini come Dey ci sono sempre state, in Germania e all’estero: si sono messe sulle loro tracce, hanno scavato nel loro passato e hanno cercato in tutti i modi di assicurarli alla giustizia. Nel 2009 hanno finalmente trovato il caso adatto e una solida argomentazione giuridica. Da allora gli anziani tedeschi dal passato oscuro non dormono più sonni tranquilli.

Il risultato è un’incredibile serie di indagini, processi e condanne cominciata una decina d’anni fa e arrivata al culmine con il processo a Dey. Questo tentativo di rimediare tardivamente alla desolante inefficacia del sistema giudiziario tedesco ha coinvolto diverse figure: i pubblici ministeri che hanno formalizzato le accuse, i sopravvissuti che hanno affrontato il banco dei testimoni, gli avvocati che hanno argomentato in difesa degli accusati, i giudici che hanno emesso le condanne.

Tutto questo non sarebbe mai successo se non fosse stato per un giudice in pensione originario del sud della Germania e per il suo ostinato rifiuto di accettare decenni di dottrina giuridica.

L’intuizione di Walther
La cittadina di Wangen è nell’angolo della Germania più distante da Berlino. Circondata da foreste e prati rigogliosi, questa splendida località ai piedi delle Alpi, vicino al lago di Costanza, è un trionfo di variopinti edifici barocchi e rinascimentali restaurati con cura. La regione è nota per i suoi formaggi, tra i migliori del paese. Sono venuto qui per incontrare Thomas Walther, un ex giudice regionale di 76 anni dallo sguardo penetrante, con lunghi capelli grigi e folte sopracciglia scure. Nel mondo, piccolo ma senza frontiere, degli avvocati che si occupano di crimini nazisti, Walther è una celebrità. Eppure conduce una vita modesta al piano terra di una casa nei sobborghi di Wangen. Ci sediamo al tavolo da pranzo davanti a un cappuccino e mi racconta come ha cominciato a dare la caccia ai nazisti.

La sua vita è cambiata radicalmente poco prima della pensione, quando lavorava in un tribunale distrettuale della zona. Cercava un’ultima sfida, e quando ha saputo che l’Ufficio centrale per le indagini sui crimini nazionalsocialisti assumeva degli investigatori, ha deciso di presentarsi. Il Zentrale Stelle (Ufficio centrale), com’è chiamato, fu istituito nel 1958 per svolgere un compito che pochi in Germania volevano svolgere: ricercare i criminali nazisti. Ha sede in un ex carcere protetto da un alto muro in pietra nella pittoresca cittadina di Ludwigsburg, vicino a Stoccarda. Il cuore di quest’istituzione si trova al piano terra, oltre una massiccia porta di metallo, in fondo a un corridoio sovrastato da una grande cartina dell’Europa centrale durante l’occupazione nazista. Il corridoio conduce a una stanza piena di alti schedari metallici: un archivio – ancora interamente cartaceo – che contiene 720mila nomi di criminali, sospettati, collaboratori e testimoni del periodo nazista. Gli otto investigatori dell’ufficio svolgono le prime fasi del lavoro dell’accusa: identificano i presunti colpevoli e passano al vaglio le prove. Poi trasferiscono la pratica ai pubblici ministeri che proseguono le indagini e, in caso, formalizzano l’accusa.

Quando Walther è arrivato al Zentrale Stelle, nel 2006, questi ultimi passaggi erano diventati sempre più rari. Il problema gliel’ha spiegato direttamente il direttore dell’ufficio in tono rassegnato. Come ricorda Walther, “ha detto: ‘Quest’istituzione quasi certamente non porterà più nessun caso in giudizio. Dobbiamo dimostrare che l’accusato è stato direttamente coinvolto nel crimine, ed è un compito impossibile. I testimoni sono tutti vecchi, malati o morti. Non sanno e non ricordano”.

Non esistevano mansioni innocenti a Sobibor. Chiunque contribuiva a mantenere in funzione la fabbrica era complice di omicidio

Con il passare del tempo i procuratori e i giudici tedeschi si erano convinti di poter perseguire solo chi era sospettato di aver commesso un omicidio in prima persona o era stato complice di uno specifico assassinio commesso da altri. In altre parole: per incriminare A, un’ex guardia di un campo di concentramento, bisognava poter dimostrare che aveva aiutato a uccidere i prigionieri B, C e D in un dato giorno e in un dato luogo. Nel caso di un normale omicidio, stabilire un simile collegamento di solito non è complicato. Ma per le atrocità commesse nelle anonime fabbriche dello sterminio di Treblinka, Auschwitz e Sobibor era praticamente impossibile. Come si poteva dimostrare che una guardia seduta in una torretta di osservazione sapeva chi veniva ucciso in un preciso momento nella vicina camera a gas?

Secondo Walther, però, il ragionamento dei giudici e dei procuratori tedeschi non reggeva. E per provarlo ha preso di mira uno dei più noti sospettati ancora in vita: John Demjanjuk. Nato in Ucraina e naturalizzato statunitense, Demjanjuk era stato condannato a morte da un tribunale israeliano nel 1988, dopo che i giudici lo avevano identificato come Ivan il terribile, una famigerata guardia di Treblinka. Tuttavia alcuni seri indizi sembravano indicare che Demjanjuk non fosse mai stato a Treblinka. Così alla fine, nel 1993, la corte suprema israeliana aveva annullato la condanna. Demjanjuk era tornato negli Stati Uniti da uomo libero, ma ben presto era finito nel mirino delle autorità statunitensi, decise a togliergli la nazionalità e a estradarlo in Europa.

L’ingresso al campo di concentramento nazista di Stutthof (oggi Sztutowo, in Polonia) nel marzo 2012. (Michal Fludra, NurPhoto via Getty Images)

Walther ha cominciato a interessarsi al caso nel 2008, quando Demjanjuk si stava battendo contro la minaccia di estradizione. Si era scoperto che l’uomo aveva effettivamente servito come trawniki, cioè guardia ausiliare dei campi di sterminio (dal nome di una località polacca che ospitava un lager nazista), non a Treblinka ma nel campo di Sobibor, nel sudest della Polonia. Durante le udienze di estradizione gli avvocati di Demjanjuk non lo avevano mai negato, e questo era un elemento cruciale. Walther sapeva che sarebbe stato impossibile dimostrare che Demjanjuk aveva preso parte a un omicidio preciso. Così ha deciso di cambiare strategia: e se il crimine di cui Demjanjuk era stato complice fosse stato non un assassinio preciso nel campo ma il campo stesso?

Sobibor, sosteneva Walther, era una “fabbrica di morte”. E proprio come ogni altra fabbrica – di auto, per esempio – dipendeva da una serie di persone che svolgevano compiti diversi ma lavoravano tutte consapevolmente per raggiungere lo stesso obiettivo. Il contabile, l’addetto alle pulizie e quello alla sicurezza di una fabbrica di auto forse non sanno che modello è prodotto in un dato giorno né metteranno mai mano a quella macchina. Eppure il loro contributo è essenziale per il successo dell’operazione nel suo insieme.

Una questione personale
Secondo Walther, lo stesso ragionamento valeva per un campo come Sobibor, il cui unico scopo era uccidere gli uomini, le donne e i bambini consegnati alle sue porte. Non esistevano mansioni innocenti a Sobibor. Chiunque contribuiva a mantenere in funzione la fabbrica era complice di omicidio. In seguito Walther avrebbe scoperto che, qualche decennio prima, in alcuni casi i tribunali tedeschi avevano seguito lo stesso ragionamento. Ma negli ambienti giudiziari, e anche tra i suoi colleghi del Zentrale Stelle, la memoria di quei processi si era persa. Walther ha deciso comunque di tentare quella strada. “Dovevo dimostrare che quell’uomo delle Ss aveva servito in un campo in un determinato intervallo di tempo e che, in quel periodo, un certo numero di vittime era arrivato al campo”, mi spiega. “Una volta riuniti questi elementi, mi sono detto che sarebbero bastati a convincere il pubblico ministero dell’esistenza di forti sospetti a carico dell’imputato. A quel punto, ho immaginato, il giudice si sarebbe chiesto: queste prove sono sufficienti per formalizzare l’accusa?”. Lo erano.

John Demjanjuk è stato estradato in Germania e formalmente incriminato nel 2009. Nel 2011 è stato condannato a cinque anni di carcere per la sua complicità nell’omicidio di 28.060 persone. È morto l’anno seguente, prima che i giudici si pronunciassero sul suo ricorso in appello. Il processo ha segnato una svolta nella storia del diritto, spianando la strada ad altri casi simili, tra cui il processo a Bruno Dey in corso ad Amburgo.

Nella battaglia di Walther c’è sempre stato qualcosa di personale. Nato nel 1943 a Erfurt, in quella che di lì a poco sarebbe diventata la Repubblica Democratica Tedesca, cioè la Germania est, l’ex giudice non ha memoria degli orrori del terzo reich. Ma è cresciuto con la consapevolezza che suo padre aveva dato prova di un coraggio e una compassione rari, nascondendo due famiglie ebree in un capanno in fondo al loro giardino e aiutandole a lasciare il paese. Walther è stato educato ai valori dell’impegno politico e sociale. “Mio padre era un cristiano praticante e molto combattivo. Oggi sarebbe considerato un idealista”, mi racconta.

Il padre è morto molti anni prima che Walther entrasse al Zentrale Stelle, ma per lui è stato comunque una fonte d’ispirazione. Walther ha deciso di consegnare la pratica su Demjanjuk alla procura di Monaco il giorno dell’anniversario dei pogrom nazisti che spinsero le due famiglie ebree a chiedere aiuto a suo padre. “Ogni tanto gli chiedo consiglio. Sempre meno spesso, forse perché mi sto avvicinando a lui. Ma viaggiando verso Monaco, con la pratica sotto il braccio, gli ho detto: ‘Hai visto papà? Niente male, eh?’”.

Le prime testimonianze
Due mesi dopo l’inizio del processo sono di nuovo ad Amburgo. Bruno Dey, che durante il controinterrogatorio era stato quasi sempre lucido e chiaro, oggi non è in forma. Non capisce le domande, dà risposte in contraddizione con le sue precedenti dichiarazioni. Spesso risponde “non so” o “non ricordo”. I medici hanno confermato che è in grado di seguire il processo, ma ci sono giorni in cui l’età si fa sentire. La giudice ha deciso di limitare le udienze di due ore a un massimo di due a settimana. Un’équipe medica è sempre presente. Ma la prova non è solo fisica. Gran parte dell’udienza è dedicata alle sconvolgenti testimonianze dei sopravvissuti di Stutthof, le cui storie fanno piombare l’aula nel silenzio.

A metà novembre Marek Dunin- Wąsowicz, un sopravvissuto polacco di 93 anni, racconta per due giorni la sua vita nel campo con la precisione di un investigatore della scientifica: le esecuzioni, i pestaggi, la continua paura e la fame incessante, il carro di legno che ogni mattina portava i cadaveri al crematorio. C’era un detto a Stutthof, ricorda: “L’unica strada per la libertà passa dalle ciminiere”.

In altri momenti sono i procuratori, gli avvocati e i testimoni a catturare l’attenzione dell’aula. I loro interventi sono altrettanto crudi. Il procuratore capo Lars Mahnke descrive in dettaglio l’effetto letale dello Zyklon b sul corpo umano e la terribile agonia delle vittime nelle camere a gas. Sottolinea le spaventose condizioni in cui erano tenuti i prigionieri malati, con l’unico scopo di accelerarne la morte. C’è anche una digressione sulla capacità dei forni crematori, stimata intorno ai dieci o undici corpi all’ora. Spesso a risaltare sono i particolari, coincidenze casuali che facevano la differenza tra la vita e la morte.

In una testimonianza scritta letta dal suo avvocato, la sopravvissuta di Stutthof Judy Meisel ricorda quando si trovò in fila davanti a una camera a gas, nuda, insieme alla madre. “Quando mi accorsi che c’era una possibilità di tornare di corsa alle baracche, mia madre mi esortò a scappare. La lasciai lì”, scrive Meisel. Fu l’ultima volta che la vide. Meisel aveva quindici anni. Nella sua dichiarazione si rivolge poi direttamente a Dey: “Stutthof fu un massacro di massa organizzato dalle Ss e realizzato con l’aiuto delle guardie. L’accusato, insieme ad altre guardie, è responsabile di non aver lasciato scappare nessuno da quell’inferno. Ha permesso che mia madre fosse uccisa. Ed è stato complice della mia quasi uccisione”.

Dey di solito non mostra nessuna emozione né sembra avere alcun senso di responsabilità per le atrocità evocate in sua presenza. “Mi dispiaceva per quelle persone”, dichiara il terzo giorno del procedimento, “ma non vedevo alcun modo per aiutarle”. In altri momenti sembra dispiacersi soprattutto per se stesso, come rivela uno scambio di battute avvenuto durante la prima settimana del processo. Le udienze, fa notare Dey, gli riportano alla memoria dei ricordi che era riuscito a cancellare per decenni. “Non è così che immaginavo gli anni della mia vecchiaia”, si lamenta. Per questa stizzita protesta viene ammonito – fatto raro – dalla giudice, Anne Meier-Göring.

Le prove si accumulano, settimana dopo settimana, ma per l’accusa le sfide legali restano notevoli. Come prima cosa, Dey non si offrì mai volontario per servire a Stutthof. L’unico motivo per cui indossò la divisa delle Ss è che tutto il suo reparto fu assegnato a Stutthof all’inizio del 1944. C’è poi il fatto che aveva solo 17 anni all’epoca del presunto crimine. Questo rende ancora più complessa una domanda che in aula si affaccia più volte: si sarebbe potuto comportare diversamente? Esisteva, per lui, una via d’uscita?

Sono domande importanti. Le guardie dei campi di solito non rischiavano molto chiedendo un trasferimento. Anzi, soprattutto verso la fine della guerra, le richieste di trasferimento al fronte erano ben accolte. Dey, però, sostiene che fu dichiarato non idoneo al combattimento a causa di un problema cardiaco. “Non condivideva quello che vedeva nel campo e avrebbe voluto che non succedesse”, mi spiega Stefan Waterkamp, il suo avvocato, al termine di una delle udienze. “Ma non pensava ci fosse un modo per impedirlo o per andarsene”.

C’è poi un’altra domanda, emersa in tutti i recenti processi legati all’olocausto: può un tribunale tedesco del 2020 condannare un adolescente tedesco del 1943 per aver preferito la macabra sicurezza di un impiego in un campo alla spietata lotta contro l’Armata rossa di Stalin sul fronte orientale? Può l’attuale generazione di avvocati e giudici lontanamente immaginare le scelte che Dey fu costretto a fare più di 75 anni fa? “È la questione intorno a cui ruota tutto il processo: come stabilire la colpa”, osserva Waterkamp. “Dey aveva solo 17 anni all’epoca. Ebbe mai una sola possibilità di tirarsi fuori da quella situazione? Poteva rifiutare di servire come guardia? E se anche avesse avuto la possibilità di lasciare Stutthof, poteva saperlo? Aveva capito davvero tutto? Sapeva che la sua presenza avrebbe aiutato altri a commettere un crimine?”.

Questa raffica di domande sarà probabilmente al centro dell’arringa finale di Waterkamp, attesa non prima di maggio. Secondo molti, però, le risposte sono già state date molto tempo fa da Fritz Bauer, forse il più celebre procuratore tedesco del novecento.

L’imperativo di disobbedire
Ebreo laico e militante socialdemocratico, Bauer fu perseguitato dai nazisti e detenuto per otto mesi in un campo di concentramento. Nella Repubblica Federale Tedesca del dopoguerra avviò dei processi che hanno segnato la storia, come il processo di Francoforte-Auschwitz del 1963-1965. Fu Bauer a dire ai servizi segreti israeliani dove trovare Adolf Eichmann, il criminale nazista di più alto rango processato dopo Norimberga.

Secondo Bauer, anche il più piccolo ingranaggio nella macchina dello sterminio nazista doveva affrontare la giustizia, perché anche chi occupava i ranghi più bassi della gerarchia delle Ss si sarebbe dovuto assolutamente rifiutare di obbedire. Come scrisse nel 1945, “quando ti viene ordinato di fare qualcosa di ingiusto, che infrange una legge fondamentale, come le leggi stabilite nei dieci comandamenti, che tutti devono conoscere, allora devi dire di no. Ecco il messaggio fondamentale che deve emergere da questi processi: avresti dovuto dire di no”.

Per decenni, dopo la guerra, i tribunali tedeschi hanno raramente assecondato la posizione di Bauer. Oggi, invece, perfino alcuni degli imputati la condividono. Come Oskar Gröning, per esempio, il “contabile di Auschwitz” processato a Luneburgo nel 2015. Auschwitz, ha detto Grö-ning ai giudici nella sua dichiarazione finale, “era un sistema del quale nessuno avrebbe dovuto far parte”.

Gröning è stato condannato per complicità nell’omicidio di trecentomila persone. Judy Meisel ha usato le sue stesse parole nella sua dichiarazione al tribunale di Amburgo: “Capisco che non fosse facile per un ragazzo di 17 anni distaccato come guardia a Stutthof trovare il modo di non farne parte”, scrive. “Ma Stutthof era un sistema del quale nessuno avrebbe dovuto far parte”.

Qualche settimana dopo l’inizio del processo di Dey, a Budapest incontro un’altra testimone dell’olocausto. Éva Pusztai-Fahidi ha 94 anni ed è una sopravvissuta di Auschwitz. Autrice di numerosi libri, è anche appassionata di danza, tanto da aver accettato di esibirsi, nonostante l’età, in uno spettacolo di danza autobiografico poi raccontato in un documentario, The euphoria of being. Il destino ha voluto che Thomas Walther diventasse suo genero. L’avvocato tedesco ha conosciuto la figlia di Pusztai-Fahidi dopo aver accettato di rappresentare l’anziana sopravvissuta in un processo contro un’ex guardia di Auschwitz. In una storia implacabilmente cupa, il loro incontro è uno dei pochi capitoli con un lieto fine.

Oggi Éva Pusztai-Fahidi abita con il suo compagno in un appartamento pieno di luce a metà strada tra la principale via commerciale di Budapest e il Danubio. Appena comincia a raccontare, rimango pietrificato dalla sua storia e dalla sua voce. Parla un tedesco preciso, con l’intonazione lenta e melodiosa un tempo diffusa in Europa centrale, e ormai quasi scomparsa.

Una storia esemplare
Nata nel 1925, Pusztai-Fahidi è cresciuta in una famiglia ebrea laica a Debrecen, in Ungheria. Ha avuto un’infanzia felice e sicura, gradualmente corrosa dalla crescente violenza dell’antisemitismo, prima del governo ungherese, poi degli invasori nazisti. Con altri seimila ebrei della regione, la sua famiglia fu deportata ad Auschwitz nell’estate del 1944. “Arrivammo direttamente alla rampa dove si svolgeva la prima selezione. Sembrava di essere atterrati sulla luna”, ricorda. “Ci chiesero: ‘Quanti anni avete?’. Io avevo già diciott’anni, ma c’erano ragazzi più giovani. Gli fu detto da altri prigionieri di mentire sulla loro età e di dire che avevano sedici anni. Perché se avevi quattordici anni ti mandavano automaticamente a sinistra, il lato sbagliato”.

Pusztai-Fahidi fu mandata a destra, insieme alla zia. La madre, il padre, la sorella piccola e una cugina con il suo neonato furono mandati a sinistra. Non li avrebbe più rivisti. Anche sua zia sopravvisse, ma si uccise qualche anno dopo la fine della guerra. “Non riusciva a convivere con i ricordi”, spiega Pusztai-Fahidi. Le chiedo di parlarmi degli uomini delle Ss e delle guardie del campo, di com’erano visti dai prigionieri. “Erano come divinità”, risponde. “Ho letto che uno di loro disse proprio così: ‘Sopra di me c’è solo dio’. Ed era vero. Non può immaginare il potere che avevano. Potevano fare quello che volevano. Non c’erano limiti”.

Éva Pusztai-Fahidi dopo una conferenza stampa del comitato internazionale di Auschwitz a Lüneburg, nel nord della Germania, aprile 2015. (Ronny Hartmann, Afp)

Il ricordo di quella totale impotenza è forse la ragione principale che ha spinto i sopravvissuti come Pusztai-Fahidi a partecipare alla recente ondata di processi legati all’olocausto: un’ultima opportunità di essere ascoltati, di registrare i nomi dei morti e di vedere almeno uno di quegli onnipotenti uomini delle Ss affrontare la giustizia, anche se con grande ritardo. Pusztai-Fahidi è andata di persona a Luneburgo nel 2015 per testimoniare contro Oskar Gröning. È stata – mi dice – “la cosa più importante che ho fatto nella vita”.

Perché?

“Perché sapevo che quell’uomo si era sentito e si era comportato come un dio. Io dovevo avere il terrore di persone come lui. Ed è terribile provare tanta paura, in ogni attimo del giorno. Poter testimoniare contro di lui in un tribunale è stato un miracolo”.

Dey potrebbe essere l’ultima persona processata per il suo ruolo nell’olocausto. O forse no. Il Zentrale Stelle sembra aver ritrovato il senso della sua missione. Jens Rommel, che dirige l’ufficio dal 2015, ha assistito a un notevole aumento dei casi e delle indagini, oltre che a un ampiamento del personale.

Questi processi non sono arrivati troppo tardi? Éva Pusztai-Fahidi ha scosso la testa. “Non è troppo tardi”, ha detto. “Non è mai troppo tardi”

Anche se ha un ritratto di Don Chisciotte nel suo ufficio, Rommel, 47 anni, assicura che la sua battaglia non è affatto vana. “Il nostro lavoro è molto particolare. L’urgenza è reale perché gli imputati sono molto anziani. È davvero una corsa contro il tempo”, mi spiega. Per essere indagati, gli indiziati dovevano avere almeno diciotto anni nel 1945 e devono averne non più di 99 oggi, il che limita le ricerche alle persone nate tra il 1921 e il 1927. Con ogni anno che passa, il periodo si restringe. Al più tardi nel 2026 il Zentrale Stelle rimarrà senza lavoro.

Chiedo a Rommel se si sente mai frustrato dalla difficoltà del suo incarico. Per ogni caso che oggi il Zentrale Stelle riesce ad aprire, ce ne sono migliaia che avrebbero potuto, o meglio dovuto, essere aperti nei decenni dopo la guerra. E non è forse ingiusto perseguire dei novantenni, molti dei quali occupavano l’ultimo gradino nella scala gerarchica dei campi, mentre tanti comandanti l’hanno fatta franca?

Rommel non la pensa così. La legge dev’essere applicata e i crimini devono essere puniti, indipendentemente da quanto fatto dalle precedenti generazioni di procuratori e giudici. “Penso che il nostro metodo sia giusto: affermiamo che l’individuo deve assumersi le sue responsabilità, anche all’interno di un sistema criminale. Non fu il regime a commettere quei crimini. I crimini li commettono gli individui. E gli individui devono assumersi la responsabilità delle loro azioni”, spiega. Poi riconosce che l’atteggiamento della giustizia penale tedesca negli anni del dopoguerra può lasciare interdetti. “Ma non possiamo limitarci a dire: hanno sbagliato in passato e ora continueremo a fare come loro. Sarebbe inaccettabile”.

Ieri come oggi i processi ai criminali nazisti, sostiene Rommel, hanno un obiettivo che va oltre l’accertamento della colpevolezza individuale degli imputati. “Il risultato più importante non è necessariamente la giusta punizione del colpevole”, spiega. “È il fatto che i tribunali stabiliscono, oltre ogni ragionevole dubbio, cosa è successo in posti come Auschwitz, Treblinka e Sobibor. Mettono la società di fronte ai fatti. E la cambiano”. In effetti oggi il mondo sembra aver di nuovo bisogno di fare i conti con quel passato. Da anni vediamo ovunque una forte crescita dell’antisemitismo e delle idee di estrema destra. La Germania non fa eccezione.

Il processo di Amburgo in teoria riguarda fatti avvenuti in un passato lontano, ma è difficile tenere fuori il presente: dieci giorni prima dell’udienza iniziale, un neonazista armato ha attaccato la sinagoga della città di Halle nel giorno di Yom Kippur, la festa ebraica dell’espiazione. Se fosse riuscito a forzare il portone di legno dell’edificio, avrebbe fatto una strage.

Orgoglio o vergogna
Qualche settimana dopo sono di nuovo nell’aula del tribunale di Amburgo. Il giorno prima, alle elezioni regionali in Turingia, il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (Afd) ha preso il 23 per cento dei voti, un risultato sorprendente. Secondo molti osservatori, il successo dell’Afd è dovuto al diffuso malcontento alimentato dall’immigrazione, in particolare dall’aumento dei profughi dal 2015. Ma alcuni leader del partito hanno cercato di conquistare consensi anche criticando il modo in cui il paese coltiva la sua memoria storica: vogliono che i tedeschi tornino a sentirsi orgogliosi del loro passato. E cercano di minimizzare l’importanza del periodo nazista.

Ad Amburgo, quando sarà il momento, i giudici pronunceranno un verdetto che valuterà la colpevolezza di un singolo individuo. Ma anche loro sanno che in gioco c’è molto più della colpevolezza o meno di Bruno Dey.

Ripenso al mio incontro con Éva Pusztai-Fahidi e a una delle ultime domande che le ho fatto: questi processi non sono arrivati troppo tardi? Ha scosso la testa. “Non è troppo tardi”, ha detto. “Non è mai troppo tardi”.

(Traduzione di Francesca Spinelli)

Questo articolo è uscito nel numero 1351 di Internazionale. Era stato pubblicato dal quotidiano britannico Financial Times.

Da sapere
Il processo

◆ Il tribunale di Amburgo ha condannato il 23 luglio l’ex guardia del campo di concentramento nazista di Stutthof, Bruno Dey, 93 anni, a due anni e mezzo di prigione con la condizionale per complicità nella morte di migliaia di persone tra il 1944 e il 1945. All’epoca dei fatti Dey era ancora minorenne. Il campo di Stutthof si trova vicino a Danzica, in Polonia.


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