10 luglio 2017 13:17

Odi et amo, scrive il poeta latino Catullo nel primo secolo avanti Cristo: “Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile / non so, ma è proprio così e mi tormento”(sulle tormentate vicende amorose di Catullo qui c’è un articolo assai grazioso).

“Te voglio bene e t’odio, nun te pozzo scurdà”, canta Totò in Malafemmena. E ancora: “Vorrei e non vorrei / Mi trema un poco il cor. /Felice, è ver, sarei / Ma può burlarmi ancor”, gorgheggia Zerlina nel Don Giovanni.

Si chiama ambivalenza. È un sentimento strano e destabilizzante. L’abbiamo provato tutti, magari senza sapere come definirlo. Fa parte della vita, e della comune esperienza emotiva e psichica, dai tempi di Catullo. E ancora da prima, dai tempi di Anacreonte, che nel quinto secolo avanti Cristo scrive “amo e non amo, sono pazzo e non sono pazzo”. E, ci scommetto, ancora da prima.

Uno stato d’animo
Il termine ambivalenza unisce due parole latine, ambi (entrambi) e valentia (forza), che bene danno conto del fenomeno: come sentirsi tirati da due parti contrapposte. Si possono nutrire sentimenti ambivalenti non solo in campo amoroso: possiamo provare contemporaneamente paura e desiderio di tuffarci da un trampolino alto, o attrazione e avversione (specie se siamo a dieta) nei confronti di una fettona di torta farcita di crema e cioccolato.

Possiamo sentirci allettati e respinti da una nuova offerta di lavoro (o da una prospettiva di viaggio) che ci sembra tanto interessante quanto faticosa e piena di insidie. E possiamo nutrire sentimenti ambivalenti perfino per un partito politico. O verso l’idea di iscriverci a una palestra (uh, mi farebbe bene! Eh, la ginnastica è una noia mortale!).

Quando ci troviamo di fronte a qualcosa che ci attrae e ci respinge, di solito esitiamo

Sta di fatto che, quando ci troviamo in una condizione di ambivalenza, i nostri comportamenti diventano meno prevedibili e più contraddittori. Per districarci, o almeno per provare a farlo, ci tocca cimentarci in un salto di ragionamento. Un lavoro di metacognizione, che significa pensare al modo in cui stiamo pensando. Magari fino ad arrivare a scrivere, su una scala da uno a dieci, quanto vale la nostra attrazione e quanto la nostra repulsione. Potremmo anche scoprire, se ripetiamo l’esercizio, che i valori fluttuano nel tempo, e molto rapidamente.

Ernest Hilgard, docente di psicologia e autore di un manuale su cui si sono formate almeno un paio di generazioni di psicologi in tutto il mondo (Italia compresa), offre una spiegazione illuminante del perché, in situazioni in cui sperimentiamo contemporaneamente attrazione e repulsione, il nostro comportamento diventa ondivago, imprevedibile e contraddittorio.

Succede, dice Hilgard, che quando ci troviamo di fronte a qualcosa che ci attrae e ci respinge, di solito esitiamo. Quando siamo lontani, le componenti attraenti possono sembrarci più forti, e dunque ci avviciniamo. Ma più siamo vicini, più le componenti respingenti diventano visibili e tornano a prevalere. Così ci allontaniamo di nuovo. Questo scomodo andirivieni può ripetersi molte volte.

Infine: poiché spesso le cose non sono solo o bianche o nere, è facile trovarsi in situazioni che sono in sé ambivalenti per complessità e quantità di implicazioni, o perché mettono in gioco differenti ordini di valori. “L’ambivalenza storica nei confronti degli immigrati è il grande paradosso americano”, titola Time. Non è l’unico.

Effetto protettivo
L’ambivalenza genera sempre ansia e incertezza. Proprio per questo, quando ci troviamo ad affrontare un grande tema controverso tendiamo, per esempio, a non prendere neanche in considerazione le argomentazioni di chi non la pensa come noi: interpretiamo male i fatti, ragioniamo in maniera sbrigativa e in base a pregiudizi la cui fondatezza evitiamo di verificare. Insomma: facciamo di tutto per conquistarci una posizione certa e univoca, e pazienza se si tratta della posizione sbagliata.

Oppure rimuoviamo del tutto la questione. Il disagio da ambivalenza affligge in modo più acuto le persone decisioniste e quelle che sono in posizione di potere, che nell’incertezza si trovano più a disagio delle altre e dunque tendono a non agire.

Ma l’ambivalenza ha anche un effetto protettivo: per esempio, e a dirlo è una ricerca recente dell’università di Stanford, coltivare deliberatamente l’ambivalenza nei confronti di un obiettivo che non siamo certi di raggiungere ci aiuta a consolarci più in fretta di un eventuale fallimento (“dai, forse l’ho scampata bella!”). Ma d’altra parte, in caso di successo sminuisce il valore del risultato ottenuto (“be’, chissà se ne vale davvero la pena”). Tutto ciò ci dice che perfino l’ambivalenza può avere conseguenze ambivalenti.

In realtà, le situazioni ambivalenti ci obbligano a compiere una ginnastica mentale mica male. E ci incoraggiano (se ne abbracciamo l’ambivalenza, invece di negarla) a sviluppare una più profonda comprensione della realtà, delle alternative possibili e di noi stessi. Per uscire dall’ambivalenza, poi, c’è una strategia interessante: dare ascolto al proprio corpo. Immedesimarsi il più profondamente possibile in una delle alternative, e poi nell’altra, e vedere come si sta. Poi, decidere di conseguenza.

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