08 aprile 2019 13:19

La logica del tanto peggio tanto meglio ha un suo perché. Per dirla in modo semplice: la maggioranza delle persone tende a conservare lo status quo, ripetendo gli stessi comportamenti e confermando le proprie scelte nel tempo.

I cambiamenti, infatti, appaiono (e sono!) sempre rischiosi e pieni di incognite. L’esito del cambiamento può apparire complicato da valutare, e spesso difficile perfino da immaginare. Dunque, per decidere di cambiare, e poi per farlo veramente, le persone hanno bisogno di avere una motivazione rilevante.

Chiamiamo motivazione l’energia che, quando percepiamo un bisogno, ci fa muovere per soddisfarlo. Più urgente e vitale è il bisogno, più possente è la motivazione, più noi ci diamo da fare.

Con queste premesse, risulta abbastanza evidente che la motivazione a cambiare una situazione terribile è molto più forte della motivazione a cambiare una situazione magari non proprio soddisfacente, ma tutto sommato accettabile.

Rischio e rivoluzione
In altre parole: solo quando le cose diventano così pessime da risultare insopportabili ci si impegna a cambiarle, rivoluzionando scelte e comportamenti e accettando di affrontare tutti i rischi connessi.

Sottolineo però che l’idea di “pessimo” è ampiamente soggettiva: dipende, oltre che dal momento storico e dai contesti economici e socioculturali, anche dalle attese e dalle percezioni individuali.

Dunque, possiamo dire non solo che le persone che stanno malissimo sono più motivate a cambiare di quelle che stanno benino, ma anche che le persone che ritengono di stare malissimo sono più motivate eccetera.

L’idea che sta alla base del “tanto peggio, tanto meglio” è proprio questa: più le cose peggiorano (nella realtà o nella percezione), più in fretta un numero maggiore di persone sarà incentivato ad affrontare il rischio, l’incertezza e la fatica del cambiamento. E più facile risulterà organizzare e orientare quelle persone in una direzione tale da modificare lo status quo in modo radicale. O almeno tale da favorire chi si candida a rappresentare il “cambiamento”.

La logica del tanto peggio fa leva sulla rabbia, la paura, il disgusto e la frustrazione

“Tanto peggio tanto meglio” non è certo un’idea nuova. Vado a cercare, e leggo che il primo a formularla in questi esatti termini è il filosofo e rivoluzionario russo Nikolai Gavrilovich Chernyshevsky, nel romanzo Che fare?, un’epopea di ascetismo, dedizione e riscatto.

Altrove, invece, si attribuisce la paternità dell’affermazione “tanto peggio, tanto meglio” all’economista russo Georgij Valentinovič Plechanov, o allo stesso Lenin, che cita Plechanov nel 1917. Ma non è questo il punto, adesso.

Il punto è che la logica del tanto peggio, tanto meglio è elementare, brutale e fallace. Non mantiene quel “meglio” che sembra promettere (ehi!, persegue l’esatto contrario). È fallace perfino se espressa in buona fede. E raramente lo è, poiché si tratta di una logica che ha una fortissima componente manipolatoria.

Le dittature che hanno funestato l’Europa nella prima metà del secolo scorso si sono sviluppate in situazioni “tanto peggio”. Sarebbe meglio se riuscissimo sia a riconoscerne le tracce contemporanee, sia a difendercene.

Per esempio.

La logica del tanto peggio fa leva sulla rabbia, la paura, il disgusto e la frustrazione. Ingigantisce i problemi e minimizza le positività. Accrescendo o accentuando le disuguaglianze, alimenta i conflitti. In situazioni conflittuali, non cerca la mediazione ma lo scontro.

È la logica del braccio di ferro, che trasforma ogni avversario in nemico da disumanizzare prima e da annientare subito dopo. Quella delle minacce e dei muri.

È una logica che semina vento per raccogliere tempesta. E non è mai, mai tanto meglio, per nessuno. Nel lungo periodo, neppure per chi, presentandosi come rude alfiere del cambiamento, la promuove allo scopo di ricavarne un vantaggio individuale.

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian.

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