07 novembre 2020 10:04

Dopo che il 16 ottobre l’insegnante di scuola media Samuel Paty è stato decapitato da un rifugiato ceceno in una città della regione parigina, in Francia si è aperta una profonda riflessione su come ridefinire il rapporto che la repubblica deve avere con l’islam. Il dibattito è ancora più vivace di quello seguito agli attentati alla redazione di Charlie Hebdo e a quelli del 13 novembre 2015 al Bataclan e in altri luoghi della capitale francese, forse a causa dell’accumulo di orrori, del simbolo preso di mira e dei fatti stessi: Paty, un insegnante di storia e geografia, è stato assassinato da un jihadista per aver mostrato delle caricature del profeta Maometto durante una lezione sulla libertà d’espressione. Il docente, che per non urtare la loro sensibilità aveva proposto agli allievi musulmani non interessati all’argomento di uscire dall’aula, dopo la lezione aveva subìto pressioni da alcuni genitori, appoggiati da militanti integralisti.

Questa vicenda ha a che fare con qualcosa di estremamente delicato, perché mette in luce problemi diversi ma che in fin dei conti girano intorno alla questione della repubblica francese, della trasmissione della sua tradizione culturale in un contesto diverso da quello della fine del novecento e di cosa un popolo deve condividere per essere considerato una nazione. Un dibattito che mette la Francia di fronte a se stessa, con la sua capacità unica al mondo di “fabbricare” dei cittadini e di difendere l’universalità del suo modello, ma anche con i limiti di questo modello nel comprendere, o addirittura accettare, tutto quello che non vi aderisce completamente.

Nell’animo di molti francesi sembra essere arrivato il momento del chiarimento. La stampa nazionale, solitamente più divisa su queste questioni, oggi critica all’unisono le tante rinunce che hanno portato a fare il gioco dell’islam radicale e chiede di difendere più che mai i princìpi e i valori della repubblica. Ma dato che il dibattito si svolge in un’atmosfera di grande turbamento e che temi tra loro collegati, ma pur sempre diversi, vengono affrontati da un’unica angolazione, la sensazione di confusione potrebbe aumentare. La Francia dice di essere in guerra, ma non si è presa il tempo necessario per identificare chiaramente il nemico. E questo è grave, visto che tutti sono d’accordo nel dire che il nemico è in casa.

L’avversario visibile, quello contro il quale la Francia è già in guerra da anni, è il jihadismo, o per meglio dire i gruppi o le persone che si rifanno al jihadismo e che commettono atti terroristici in territorio francese. Non possono esserci mezze misure nell’affrontare un nemico che è in una logica di guerra totale. Nell’immediato, il jihadismo si combatte sul terreno della conoscenza, dell’intelligence e sul fronte militare. La battaglia ideologica invece ha bisogno di molto più tempo e presenta molte difficoltà.

Il jihadismo è un’ideologia profondamente religiosa (anche se la sua natura s’inserisce perfettamente nella postmodernità) che, attraverso una lettura totalizzate dell’islam, divide il mondo tra i bravi fedeli e tutti gli altri contro i quali è legittimo combattere. I fondamentalisti e i salafiti quietisti (la corrente più numerosa del salafismo che s’ispira agli insegnamenti del teologo Nasil al Din al Albani ed evita l’impegno politico attivo) condividono parte della visione del mondo jihadista, ma sono in disaccordo su diversi aspetti.

Questo significa che il più delle volte, nonostante i possibili punti di convergenza tra le diverse scuole, queste si scontrano tra loro. Perché ricordare tutto ciò, al di là della semplice disputa semantica? Perché, di nuovo, per fare una guerra bisogna identificare bene il nemico, e non si può affrontare il jihadismo, che è in rottura totale con i valori della repubblica francese, come si affronta l’islam radicale, con il quale la rottura è parziale.

Il fondamentalismo islamico è il nemico ambiguo, quello che gioca con le armi del suo avversario e tenta di farsi passare per suo alleato. I salafiti quietisti sono in una logica di rottura con la società, ma nella maggior parte dei casi non tentano di combatterla o di modificarla al di fuori dello spazio privato, l’islam radicale invece è più in una logica di conquista dello spazio pubblico, e questo rende più delicata la lotta a questi movimenti.

Si possono chiudere delle moschee o delle associazioni, ma le idee potranno comunque trasmettersi attraverso altri canali. La questione riguarda i limiti di quello che è possibile fare di fronte alla diffusione di un’ideologia e alle pratiche che ne derivano.

Come reagire, per esempio, davanti al comportamento di un uomo che si rifiuta di stringere la mano a una donna, un atteggiamento contrario ai valori della repubblica francese ma che non costituisce di per sé un reato? Come reagire al fatto che alcune persone sviluppano un discorso vittimista nel quale l’occidente è sempre l’aggressore e il musulmano sempre l’oppresso, in un paese in cui fortunatamente la libertà di espressione è riconosciuta come libertà fondamentale?

La lotta al fondamentalismo è particolarmente delicata perché i concetti diffusi da queste correnti possono avere un certo seguito presso una parte dei musulmani, trovando allo stesso tempo l’appoggio di una parte della sinistra, con delle buone e delle cattive ragioni. Cattive, perché all’interno di questo movimento c’è una tendenza a dare credito a un discorso vittimista e identitario sulla base di una visione un po’ paternalista che fa il gioco degli estremisti e conduce in un vicolo cieco. Buone, perché l’odio verso l’islam, le disuguaglianze sociali, le discriminazioni derivanti dal passato coloniale francese esistono e vanno combattute, senza lasciare agli islamisti il monopolio di queste battaglie. Non prendere in considerazione queste realtà con il pretesto di avere come primo obiettivo la lotta all’islam radicale può rivelarsi controproducente a lungo termine.

Il rischio in questa guerra è quello di emarginare i musulmani che dovrebbero essere in prima linea nel combatterla

Pensare che un atteggiamento più autoritario e la rinuncia allo stato di diritto permetterebbero di ottenere risultati migliori nella guerra all’islam radicale vuol dire ignorare la storia recente del Medio Oriente, dove peraltro i regimi autoritari hanno sistematicamente spianato la strada ai fondamentalisti che pretendevano di combattere.

Il perimetro della guerra che la repubblica francese vuole muovere all’islam radicale è in molti casi evidente, ma lo è molto meno in altri. Tanto più perché il dibattito si svolge in un clima di slittamento a destra della società.

Quali sono i confini della repubblica da un lato e dell’islam radicale dall’altro? Una persona perfettamente integrata che porta il velo negli spazi pubblici – un comportamento che non è contrario alla legge francese ma che può sembrare incompatibile con alcuni princìpi repubblicani (non quello della laicità, ma quello dell’uguaglianza tra uomo e donna) – dal punto di vista dei difensori della repubblica deve essere considerata una promotrice dell’islam radicale? Una persona integrata che si sente a disagio quando vengono diffuse le caricature del profeta Maometto ma non mette in discussione neanche per un secondo il diritto di pubblicarle può essere considerata repubblicana? Che posto può lasciare la repubblica francese, al di là di quel che prevede la legge, alla sfera della fede religiosa e dell’intimità? Il rischio in questa guerra è di emarginare proprio quei musulmani che dovrebbero essere in prima linea a combatterla.

La Francia sembra essere in un momento decisivo, in cui l’ago della bilancia può pendere da una parte o dall’altra. Da un lato c’è una visione quasi religiosa della repubblica, che ha il merito di emancipare l’individuo e di creare un collante tra i suoi cittadini, ma che può apparire tanto restrittiva da avere difficoltà a includere le persone non bianche o non cristiane. Dall’altro lato c’è una visione più ampia, che non abdica però alla specificità repubblicana, e che permette d’includere persone di origini diverse senza chiedergli di rinunciare completamente alla loro identità.

La prima visione prevede che la repubblica affronti una prova di forza su tutti i fronti con l’islam, come ha fatto in passato per assoggettare il cattolicesimo. La seconda opzione impone una prova di pazienza, di capacità pedagogica e di disponibilità a ridiscutere rispetto a una parte della tradizione repubblicana, in particolare il diritto alla blasfemia, retaggio di una storia anticlericale originata dall’illuminismo che è specifica della Francia e che può sembrare aggressiva a chiunque non abbia (ancora) fatto propria questa storia, o a qualunque credente.

Per la Francia non si tratta di rinunciare alla propria storia, ai propri valori o ai propri princìpi, ma di ridefinire cosa rende un insieme di individui di diverse culture dei cittadini della stessa nazione. La repubblica dev’essere un blocco omogeneo a cui consacrarsi come a una chiesa, o può accettare correnti diverse che però poi si ricongiungono sui valori essenziali? D’altronde non è questa la peculiarità della Francia nel mondo, l’aver permesso a persone del Nordamerica, dell’Africa o del Medio Oriente di sentirsi francesi e repubblicane pur senza aver mai calpestato il suo suolo?

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è uscito sul numero 1382 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati. Era stato pubblicato il 22 ottobre 2020 (prima dell’attentato di Nizza) sul quotidiano libanese L’Orient le Jour.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it