04 settembre 2015 14:14

“Salve, compagni!”. Il presidente Xi Jinping saluta le sue truppe spuntando dal tettuccio della limousine Hongqi (bandiera rossa), su cui diversi suoi predecessori hanno sfilato durante le parate militari. “Salve, presidente!”, rispondono in coro i dodicimila soldati schierati. “Avete lavorato duro, compagni!”, grida ancora il comandante in capo. “Per servire il popolo!”, strillano loro all’unisono.

Con un copione recitato fino alla noia e settanta colpi di pistola sparati in aria, il 3 settembre è cominciata così la grande parata militare per festeggiare il 70° anniversario dalla vittoria cinese nella seconda guerra mondiale. Il presidente ha ribadito con un breve discorso l’importanza che la guerra di resistenza all’invasione giapponese ha avuto per la rinascita del paese e ha ricordato i 35 milioni di cinesi che hanno perso la vita in quegli anni.

Ma ad attirare l’attenzione degli spettatori e degli osservatori politici è stata la presenza accanto a Xi di Jiang Zemin, l’ex presidente ormai quasi novantenne passato alla storia per aver portato la Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio e per aver mantenuto il comando dell’esercito ben oltre la fine del suo mandato. La sua influenza sulle forze armate continua tutt’ora, e chissà che l’annuncio del taglio di 300mila unità dell’esercito, inserito a sorpresa nel discorso di ieri, non c’entri qualcosa con questo. Xi l’aveva già concordato con i vertici competenti o ha forzato la mano di fronte alle telecamere di tutto il mondo? Probabilmente non lo sapremo mai. Quel che è certo è che ormai nessuno potrà più smentirlo.

Costi quel che costi, Xi Jinping vuole mantenere un potere decisionale indiscusso

Quasi tutti i funzionari di più alto grado colpiti dalla campagna anticorruzione voluta dal governo di Xi sono uomini di Jiang Zemin. Secondo molti è a lui che si riferiscono i mezzi d’informazione di stato quando parlano di “impensabile resistenza” alle “riforme strutturali” di cui la Cina ha bisogno. Ancora più esplicito, almeno per la sensibilità cinese, è un editoriale del Quotidiano del Popolo uscito in agosto: “È normale che il tè si raffreddi non appena i commensali lasciano la casa”, scriveva l’organo del Partito comunista cinese il mese scorso. Ovvero, i politici devono abituarsi all’idea che, una volta in pensione, non possono più esercitare il loro potere.

Costi quel che costi, Xi Jinping vuole mantenere un potere decisionale indiscusso sul cammino che dovrà intraprendere il paese nei prossimi anni. L’economia cinese è in una fase di transizione. La crescita sta rallentando e l’ennesimo incidente sul lavoro, quello del 12 agosto al porto di Tianjin, insieme alla recente crisi delle borse, hanno messo in discussione il fulcro del patto non scritto che ha permesso al partito di governare per più di sessant’anni: il costante miglioramento delle condizioni economiche delle famiglie cinesi.

Scontro al vertice

Oggi il governo di Pechino dovrebbe favorire i consumi trasferendo ricchezza dalle lobby di potere alle famiglie ordinarie. Ovvero mettere in discussione gli interessi personali e i privilegi acquisiti della classe dirigente, permettere alle aziende private di competere in maniera sana con le grandi aziende di stato e rafforzare lo stato di diritto per restituire fiducia agli investitori.

Queste riforme, annunciate da Xi a inizio mandato e non ancora realizzate, potrebbero rappresentare un paracadute e, forse, nuove basi per una crescita diversa. Ma intaccano gli interessi di parenti e sodali di quei politici che godono ancora degli onori di un successo indiscusso: aver sollevato dalla povertà 600 milioni di persone in soli trent’anni. Sono molti e occupano posizioni di potere nell’esercito e nelle aziende di stato. E quasi tutti sono stati messi lì dall’ultimo grande vecchio della politica cinese, il compagno Jiang Zemin. Riuscirà l’attuale presidente a metterlo all’angolo? Con la parata del 3 settembre Xi Jinping ha mostrato i muscoli. Nei prossimi mesi vedremo se saprà usarli.

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