08 maggio 2016 11:19

Parliamo di quello di cui parliamo senza parlarne mai: parliamo di morte. Quest’anno, come al solito, sui giornali ne abbiamo parlato moltissimo, vittime del terrorismo, delle guerre, dei naufragi nel Mediterraneo, e poi i morti famosi, come David Bowie, Gianroberto Casaleggio, Prince, tanto da far sembrare il 2016 un anno più funesto degli altri. Le morti fanno audience, chiamano i clic; da quando esistono i social network abbiamo sviluppato una gran dimestichezza nell’elaborazione collettiva del lutto, qualunque reazione abbiamo: possiamo commuoverci, piangere, fare un applauso a un funerale, essere spiazzati, impauriti, nostalgici, abituati, scioccati, impressionati, cinici, ma sappiamo avere a che fare con la morte. Posiamo i nostri fiori veri o simbolici, ci stringiamo nel dolore.

Eppure pochissimi di noi hanno visto un cadavere, come dire, “dal vivo”. Ancora di meno hanno avuto l’occasione di assistere qualcuno nel momento del trapasso. La morte, scriveva Geoffrey Gorer in un saggio del 1955, è diventata pornografica. La stessa definizione che usava anche Philippe Ariés nella Storia della morte in occidente nel 1978: si muore da soli, negli ospedali, spesso in camere singole o nascosti da una tendina. La morte è un rito osceno e privato. Continua a esistere, possiamo conoscerla, saperla in tempo reale, ma scompare dalla nostra vista.

Per questo, molto spesso, quando so della notizia della morte di una persona – qualcuno che conoscevo di persona, o anche qualcuno di noto – provo ad allargare di un pezzettino lo spazio emotivo da dedicare all’evento. Mi dico: è morto David Bowie, uno dei più grandi musicisti degli ultimi cinquant’anni, riascoltiamo tutti i suoi dischi, discutiamo dell’importanza che ha avuto in tutta la cultura popolare, ma mettiamoci di fronte per un po’ alla nudità dell’evento in sé. Questo fatto della morte. Non è facile.

La riflessione intorno al mistero più profondo della nostra esperienza appare come una perdita di tempo

Quando ero piccolo i miei genitori mi portavano al cimitero spesso. A qualche chilometro fuori dell’abitato, nei paesi delle famiglie d’origine dove andavamo in vacanza, c’erano tutte persone che non avevo conosciuto in vita, un nonno morto negli anni sessanta, vecchi zii, parenti lontanissimi che avevano la stessa aura di personaggi leggendari per cui io provavo un affetto straniato e una stramba familiarità.

Oggi è difficile che un bambino o un ragazzo abbia l’abitudine ad andare al cimitero. Come è molto raro che gli venga chiesto di riflettere sulla morte. C’è un rito singolare che alcuni miei amici che trent’anni fa andavano a catechismo dai padri salesiani compivano una volta al mese: si chiamava l’esercizio della buona morte, e si trattava essenzialmente di un’ora di meditazione sulla nostra fine. Probabilmente molti genitori lo troverebbero di cattivo gusto, se non una forma di violenza psicologica sull’infanzia.

È vero però che questo spazio interiore qualcuno se lo ricava per conto proprio, spesso andando controcorrente. Il mito connesso alla vita eterna oggi non è di gran moda; la riflessione intorno a qualcosa di trascendente, al mistero più profondo della nostra esperienza, appaiono come una perdita di tempo, o impegni troppo gravosi; intorno a noi la saggezza più comune che ci viene comminata è quella che ci insegna a non invecchiare, a restare giovani, mangiando sano, facendo sport, utilizzando creme antiage. Eppure ci ammaliamo, invecchiamo e moriamo.

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Cosa ci insegna la letteratura

I libri che affrontano questo tema di petto sono sicuramente tra i miei preferiti. Il saggio di Jankelevitch del 1959, La morte, rimane per molti versi insuperato nella sua capacità percussiva di muoversi in cerca di qualcosa di inesplorabile, illuminando però con molte luci il senso di questo interrogarsi, a partire dalle contraddizioni intrinseche della nostra natura umana.

È la vita stessa, dunque, che porta in sé la propria contraddizione interna (…) quel punto infinitesimale a partire dal quale le forze della vita si rovesciano in forze di morte – e reciprocamente (…). Vivere è mantenersi in equilibrio instabile fra queste forze contraddittorie. La vita – diceva Bichat – è l’insieme delle forze che resistono alla morte. Ma occorrerebbe aggiungere, perché ciò abbia un senso: la vita resiste a qualcosa che è essa stessa.

La morte ha una sua natura inspiegabilmente iniqua: non solo per chi muore giovane, non solo per quelle domande metafisiche che Dostoevskij lanciava contro Dio, “perché i bambini muoiono?”. Ma indipendentemente dalla durata, la vita non ci basta mai, e venirne privati, anche dopo una esistenza piena e lunga ci appare – ed è corretto che sia così – una cosa cattiva. A questa conclusione disarmante arriva il filosofo analitico Thomas Nagel in Questioni mortali, appena uscito dal Saggiatore.

Ma anche potendo farcene una ragione – questo farcene una ragione è essenzialmente la tragicità dell’essenza umana – questo non esaurisce fino in fondo la nostra esperienza con la morte. Perché la morte ha una natura ambivalente ed è questo forse il suo aspetto più atroce e insieme ironico: sappiamo che morire un giorno o un altro è inevitabile, ma morire un giorno o un altro non è mai necessario.

L’apologo sulla morte più spietato è la novella di Tolstoj che racconta la vita, la malattia e la morte di Ivan Il’ic, uomo della buona borghesia russa, ben visto in società, che solo nell’aggravarsi della malattia riconosce che c’è una questione che non si è mai posto: il suo corpo sofferente è un peso per sé e per gli altri, anche i suoi cari, che sembra quasi non vedano l’ora di sbarazzarsene; mentre a lui resta solo il rimpianto di non aver deciso forse mai il proprio destino.

C’è una tale riluttanza a parlare di malattia, vecchiaia e morte senza pudore o sentimentalismo, che gli autori che decidono di farlo meritano un riconoscimento anche solo per l’impegno. Atul Gawande, un medico statunitense di origine indiana, l’anno scorso ha pubblicato un libro che si intitola semplicemente Being mortal (uscito da poco in Italia per Einaudi nella traduzione di Duccio Sacchi), e affronta questi temi con l’approccio di uno studioso e di un chirurgo di alto livello che confessa la propria inettitudine da un punto di vista culturale.

Il progresso della medicina e della sanità pubblica è stato una benedizione inimmaginabile: la gente non ha mai goduto di una vita così lunga, sana e produttiva. Eppure, mentre siamo in viaggio su queste traiettorie modificate, guardiamo la vita nei tratti in discesa con una sorta di imbarazzo (…). Noi medici non diamo una gran mano in proposito, perché spesso siamo poco interessati ai pazienti in fase declinante, a meno che non abbiano un ben preciso problema che possa essere risolto. In un certo senso i progressi della medicina moderna ci hanno consegnato due rivoluzioni: siamo stati sottoposti a una trasformazione biologica del corso delle nostre vite, ma anche a una trasformazione culturale del modo di pensare a questo nuovo corso.

I medici che oggi affollano le stanze dei pazienti terminali non sono molto diversi da quelli che si susseguono al capezzale di Ivan Il’ic. Gawande li divide in “paternalisti” e “informativi”. Ci sono quelli che aspirano a dare ai pazienti ciò che ritengono sia il meglio per loro, che possiedono conoscenza ed esperienze, che si arrogano il diritto di compiere le scelte cruciali; ci sono gli altri che da esperti forniscono al paziente cifre e dati, conoscenze e competenze aggiornate, e che lasciano ai pazienti tutto il peso delle decisioni.

Seppure questi due approcci funzionassero da un punto di vista clinico – e dati alla mano, Gawande dimostra che non funzionano molto – falliscono da un punto di vista umano. Le ambizioni che abbiamo da malati o da anziani si trasformano, e forse sarebbe sensato riformare le cure e le strutture mediche coinvolte.

Essere mortale a un certo punto tocca con una chiarezza esemplare il centro della nostra condizione umana, nel momento in cui scopriamo quanto sia costituente la nostra debolezza:

Il terrore dell’infermità e della vecchiaia non è soltanto il terrore delle perdite che si è costretti a sopportare: è anche il terrore dell’isolamento. Gli uomini, quando diventano consapevoli della finitudine della propria esistenza, non chiedono grandi cose. Non cercano nuove ricchezze. Non vogliono più potere. Chiedono solo che sia loro consentito, nei limiti del possibile, di continuare a plasmare la storia del loro essere al mondo: chiedono di fare scelte, di mantenere i contatti con il prossimo secondo le proprie priorità.

Le pagine di Essere mortale sono piene di piccole e fondamentali epifanie come questa. Ogni volta, dopo aver raccontato la complicata, dolorosissima storia clinica di un certo paziente, Gawande prova a innalzare lo sguardo. La nostra medicina è conformata alla nostra società che contempla la salute e la vita come un prodotto di consumo di cui disporre quanto più possibile; e in nome di questa ambizione non abbiamo pensato a cosa fare quando non è possibile guarire, né sperare:

Abbiamo costruito un apparato da molti miliardi di dollari per dispensare l’equivalente sanitario dei biglietti della lotteria, mentre disponiamo soltanto di sistemi rudimentali per preparare i pazienti al fatto quasi certo che quei biglietti non saranno estratti. Il nostro progetto è la speranza, ma la speranza non è un progetto.

E questo è il migliore dei casi, perché spesso le case di riposo, o le corsie di geriatria, sono l’equivalente di un reparto di smaltimento, dove i pazienti sono trattati con disattenzione e fastidio, e sedati con una caterva di farmaci. C’è un’urgenza che non ci sembra tale e che invece dovrebbe imporsi alla nostra attenzione e a quella dei politici: abbiamo una società che affronta la fase finale del ciclo della vita cercando di non pensarci.

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Ci ritroviamo con istituti che perseguono ogni tipo di obiettivo sociale – liberare i letti d’ospedale, alleggerire il carico che grava sulle famiglie, affrontare il problema della povertà tra gli anziani – tranne quello che importa a chi ci risiede: come condurre una vita che valga la pena vivere quando siamo deboli e vulnerabili e non sappiamo piú cavarcela da soli.

Se la prima parte del libro di Gawande è una requisitoria su queste distorsioni del sistema sanitario, la seconda ha un andamento più intimo e dolente: scrivere un trattato dell’ars moriendi non è utile solo a chi si avvicina alla sua fine, non significa solamente ripensare la professione del medico, degli infermieri e la destinazione del denaro pubblico per la sanità; ma vuol diffondere una cultura differente per chi resta, è una pedagogia all’elaborazione del lutto.

Le persone gravemente ammalate hanno altre preoccupazioni oltre al semplice prolungamento della loro vita. Principalmente, come ci mostrano gli studi, vogliono evitare di soffrire, stare a piú stretto contatto con familiari e amici, mantenere la lucidità mentale, non essere di peso agli altri e riuscire a dare un senso di completezza alla propria esistenza.

Per questo Essere mortale è un testo fondamentale anche per chi non è alle prese con un caso estremo: perché troverà nella relazione paziente-medico il paradigma di molte altre relazioni umane. In antitesi a quello paternalista e a quello informativo Gawande propone quello interpretativo (“noi vogliamo sì avere informazione e potere decisionale, ma vogliamo anche essere guidati”). È il modello maiuetico, socratico, dialogico. L’idea che sia possibile anche nei contesti più laceranti riuscire a chiedere e dare un senso alla nostra esistenza (“la gente non cerca tanto i dati e i fatti quanto il significato che si cela dietro a questi dati”), e soprattutto preservare lo spazio di una relazione autentica.

Questo non vuol dire provare a ridurre lo strazio della circostanza della morte a una facile consolazione, ma il contrario: cercare di poterne cogliere appieno il mistero.

E renderci conto che quest’approssimarsi alla morte con la consapevolezza della fine è anche un dono e un privilegio concesso solo a noi esseri umani.

Nell’epilogo di Essere mortale, Atul Gawande racconta il momento in cui accompagna le ceneri del padre morto per un cancro e le disperde nel Gange, come era nelle volontà paterne.

Uno dei modi con cui papà affrontava i limiti che si paravano sul suo cammino era guardarli senza farsi illusioni. Le sue condizioni a volte lo deprimevano, ma non fece mai finta che fossero migliori di quel che erano. Non dimenticò mai che la vita è breve, e piccolo il nostro posto nel mondo. Ma si considerava anche un anello di una catena fatta di storia. Mentre solcavo le gonfie acque del fiume, non potei evitare di sentire le mani delle tante generazioni che si erano passate il testimone attraverso il tempo. Portandoci lì, papà ci aveva aiutati a capire che lui era parte di una storia antica migliaia di anni – e che quindi lo eravamo anche noi.

Ogni volta che un essere umano ci consegna l’esperienza della sua morte non ci toglie solo qualcosa, ma ci fa anche un dono incredibilmente prezioso, che a nostra volta dovremo saper trasmettere a qualcun altro.

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