03 luglio 2017 10:11

Il premio Strega è un premio singolare: il riconoscimento letterario più importante d’Italia lo decidono ogni anno circa cinquecento “amici della domenica”, tra i quali ci sono editori, scrittori, studiosi autorevolissimi ma anche personalità varie, da Gianni Alemanno a Gianni Letta, che sono braccati per mesi dagli uffici stampa delle case editrici per assicurarsi il loro voto. Ma al di là della gara e dei suoi effetti commerciali – si è calcolato che una vittoria porti a un incremento del 500 per cento delle copie vendute – è utile guardare alla cinquina dei finalisti perché spesso per i lettori funziona come una macchia di Rorschach: ci si rispecchia e vi si riconosce una specie di racconto collettivo, prismatico, dell’Italia.

Se letti tutti insieme, quelli di quest’anno compongono una sorta di romanzo di formazione a cinque facce. O diciamola ancora meglio: un romanzo in cui si cerca la possibilità di una formazione e dove si alternano storie di sopravvivenza.

Otto montagne di Paolo Cognetti (Einaudi) racconta la vicenda di Pietro dalla sua infanzia ai quarant’anni e il suo rapporto di amore e distanza con le Alpi; La compagnia delle anime finte di Wanda Marasco (Neri Pozza) ripercorre la vita di Vincenzina nella Napoli popolare dal dopoguerra in poi; È giusto obbedire alla notte di Matteo Nucci (Ponte alle Grazie) è il resoconto della discesa di Ippolito, un ex archeologo chiamato il Dottore, negli inferi della comunità di sbaraccati che vive a Roma sulle rive del Tevere; La più amata (Mondadori) è l’autobiografia molto inventata di Teresa Ciabatti e della sua famiglia piena di segreti nella provincia ricca del grossetano; Un’educazione milanese (Manni) è l’autobiografia di Alberto Rollo e insieme la memoria delle trasformazioni di Milano dalla città operaia degli anni sessanta alla città postindustriale di oggi.

Reduci in cerca di salvezza
Pietro, Vincenzina, il Dottore, Teresa e Alberto possono essere considerati dal lettore dei testimoni di un’età migliore perduta, non solo perché legata all’infanzia o alla giovinezza, ma anche perché connotata da un’adesione più intensa al mondo, alle sue comunità di uomini e donne, illusoria o reale che sia. Sembrano dunque dei reduci, dei superstiti di un’Italia che si è trasformata e l’ha fatto in peggio, in cui se non si è più poveri, sicuramente si è più soli.

Paolo Cognetti, 2017. (Alberto Cristofari, A3/Contrasto)

Prendiamo il Dottore di È giusto obbedire alla notte che decide di abbandonare la sua vita borghese dopo una tragedia familiare. Il suo personaggio rappresenta l’epitome di questa umanità. Sa di appartenere a un altro tempo, arcaico e futuro; la passione di Nucci per la cultura greca, la sua incredibile capacità di entrare nell’etica degli eroi, di riscrivere il mondo a partire da quella koiné morale, rende la comunità di autoemarginati del suo romanzo un luogo dove le relazioni hanno ancora un senso dopo che il tessuto sociale si è rovinato.

Da quest’angolazione È giusto obbedire alla notte è un romanzo che pare svolgersi dopo una guerra, parente dell’epica omerica fin dal titolo, ma anche di quegli scrittori che hanno cercato di lavorare sul mito e sugli archetipi, come Cormac McCarthy. Nucci ha la stessa ambizione mostrata dall’autore statunitense in libri come La strada e Suttree: immaginare come si possa sopravvivere a un mondo che si guasta riscrivendo le regole sociali, in una dimensione eterna:

Non è nemmeno il labirinto. Non si va né avanti né indietro. Non ha senso il tempo, né in avanti né all’indietro. E per questo non hanno senso più neppure i nomi che diamo alle cose e alle persone. Né le definizioni. Né le immagini. Tutto è indistinto. E questa indistinzione è evidente nel momento in cui tutto ci appare in una luce improvvisamente abbagliante.

Anche la Vincenzina di Marasco ha dovuto trovare un equilibrio tra sopravvivenza e inferno. La Napoli martoriata dalla guerra non ha lasciato incolume nessuno, né puro.

Sei venuta dal niente e dalla paura, ma’. Hai incontrato un uomo venuto dalla caduta e dalla viltà, quando la storia aveva già annientato e umiliato gli uomini. In una città dove il mondo migliore era soltanto un sodalizio tra un esercito straniero, il governo nuovo e la malavita.

Salvarsi per lei vuol dire resistere ai tradimenti del marito, e trovare sempre il modo di avere soldi a sufficienza per campare – nell’incubo di una regressione al vuoto della guerra.

Rollo racconta invece le strade e le fabbriche di una Milano anni cinquanta in cui si mescolano autoctoni e immigrati. Origini distinte, distanze generazionali, valori polari, ma:

Nel milanese di mio padre – e in quello dei suoi fratelli – si avvertiva la solidarietà della lingua forte, di una lingua più paterna che materna, quella parlata dalla città del lavoro. Non v’era alcuna traccia di cesura linguistica fra i miei genitori: era come avessero vissuto nello stesso quartiere, come fossero state raccontate loro le stesse storie, come avessero avuto in comune uno stesso codice.

La lingua del lavoro diventa la lingua che riesce ad accomunare provenienze lontane e a improntare sul serio una vita collettiva possibile.

Anche l’ultima parte di La più amata e l’ultimo capitolo di Otto montagne guardano al passato. In entrambi i casi, tocca a chi è sopravvissuto raccontare la storia di famiglia. Dopo aver cercato le tracce autentiche di una vita paterna conosciuta solo a metà, sia Pietro sia Teresa, i protagonisti dei due romanzi, si arrenderanno a una sorta di oblio attivo – scovare una verità nel passato, provare a portarne l’eredità può condurre il nostro cammino fino a un certo punto, poi il compito sarà quello di prendere le distanze dal lascito che ci ha formato.

L’aspetto più toccante del romanzo di Cognetti è sicuramente il rapporto tra Pietro e il padre: “Cominciai a imparare il modo di andare in montagna di mio padre, la cosa più simile a un’educazione che io abbia ricevuto da lui”. Le firme, i ricordi brevi, le scritte del padre, ritrovate nei quaderni lasciati nei rifugi della montagna che Pietro decide di scalare in solitaria anni dopo la sua morte, sono una delle invenzioni narrative più riuscite di Otto montagne.

Wanda Marasco, 2013. (Leonardo Cendamo, Luzphoto)

Così come è potente la sottigliezza con cui viene raccontata la delicata soglia tra legami di sangue e legami d’elezione (come quello con l’amico fraterno Bruno), tra il pudore dei sentimenti e la forza vincolante degli affetti più profondi; ricorda le pagine più cristalline di Flannery O’Connor, che Cognetti non nasconde di avere presente, rimodulando il suo immaginario cristiano in una specie di religione laica, di rispetto per l’altro, di fede nella propria vocazione, di amore per la natura.

Allo stesso modo il sentimento più acuto che la protagonista del libro di Teresa Ciabatti sa regalarci è la sua futile e disperata nostalgia affettiva per suo padre Lorenzo, rinomato medico di provincia, personaggio sfuggente, dalle molte facce: era un eroe o un massone amico di criminali? Ha protetto la famiglia come un dio o l’ha messa in pericolo come può fare l’ultimo degli incoscienti narcisisti?

Mi confido con un amico. Perché devi essere sempre così eccessiva? Domanda lui. Tronco il rapporto. Odio i miei amici, gente mediocre. Io sono migliore. Chi è migliore? Colui che sopravvive al dolore, e io lo sono, io sono qui, sopravvissuta al buio del passato (era così buio?), al gorgo di un’infanzia infelice (ma poi: era così infelice? Sii onesta, Teresa Ciabatti…). Io sono una sopravvissuta, e voi no.

E alla fine la sensazione che si prova leggendo tutti insieme i cinque finalisti è una singolare pietà per questi personaggi, determinati così tanto dal loro passato perduto.

I luoghi come protagonisti
I loro movimenti sono spesso fughe e ritorni a luoghi d’origine. La distanza e la vicinanza da questi luoghi del cuore viene misurata in spostamenti e traslochi, o peregrinazioni nelle anime divise della stessa città, case che vengono costruite o vendute. La montagna di Cognetti, la provincia di Ciabatti, la Milano di Rollo, la Napoli di Marasco, il fiume di Nucci: il rapporto tra le figure umane e i paesaggi è molto più di quello tra gli attori e un fondoscena.

Matteo Nucci, 2017. (Basso Cannarsa, Luzphoto)

I luoghi diventano protagonisti delle storie, in qualche modo le determinano: si impongono – “Roma è qui”, dice un personaggio di È giusto obbedire alla notte; segnano i confini delle scelte che si possono fare – “E qui finisce Napoli”, dice Rafele a Vincenzina in La compagnia delle anime finte; costruiscono legami – “Milano lo vuole?”, grida uno sconosciuto all’Alberto Rollo bambino che si è appena smarrito; definiscono i sentimenti – “Non ricordavo bene perché mi fossi allontanato dalla montagna, né che cos’altro avessi amato quando non amavo più lei”, dice il Pietro di Cognetti; segnano il destino dei protagonisti, come quello di Teresa in La più amata quando la famiglia lascia la provincia – “Ha sbagliato a portarci a Roma. Deve farsi perdonare, consolarci, rassicurarci (…). Eccola la sua bambina di provincia smarrita nella grande città, eccola la sua bambina imperfetta”.

L’idea che i personaggi siano sovradeterminati dai luoghi in cui vivono, che non siano autonomi rispetto a essi o che non li mettano in discussione, che non ci sia insomma un conflitto può essere un limite letterario dei cinque libri finalisti, che si ritrova spesso nella narrativa italiana contemporanea. Finisce che i luoghi letterari diventano più memorabili dei personaggi stessi.

Cinque lingue diverse
Se finora tra un romanzo e l’altro si sono colti i punti di contatto, c’è da evidenziare anche l’elemento che li distingue di più, ovvero la lingua usata. Espressionista quella di Nucci e Marasco, classica quella di Cognetti, paratattica e memorialistica quella di Rollo e Ciabatti.

Quest’ultima s’inventa un modo tutto ellittico di raccontare una vicenda che dura mezzo secolo. Usa la punteggiatura in modo da lasciare a chi legge la scelta di quale legame trovare nel suo periodare: abbondanza di virgole e poche congiunzioni, due punti e punti invece di punti e virgola – come se il semplice accostamento di frasi possa produrre storie, giudizi, riflessione, e soprattutto ritmo.

Alberto Rollo, 2017. (Alberto Cristofari, A3/Contrasto)

L’impalcatura che regge tutta la narrazione di La più amata è un incalzare incessante. Anaforico, dattilico. Prendiamo un pezzo qualunque, all’inizio della storia tra il padre e la madre di Teresa. Si noteranno le continue frasi sostantivate, il discorso diretto che si confonde con quello indiretto, e soprattutto le doppiette e triplette di aggettivi e nomi –così ricorrenti nel libro – usate per creare delle micronarrazioni.

Arrampicatrice sociale, mignotta, fattucchiera, l’accuseranno anche di questo nelle lettere anonime. In pochi mesi succede tutto: corteggiamento, malintesi, rappacificazioni. La prima uscita, il primo bacio.

A tratti quest’andatura è efficace, strumentale all’idea di una voce che deve suonare non solo autentica, ma esposta, senza filtri. Il problema è che a lungo andare si traduce in monotonia. Il presente indicativo – insistente, spesso usato per rendere un tono confessionale – può diventare ridondante. Il gusto per gli elenchi a volte si trasforma in un vezzo per l’accumulo. Ciabatti usa l’ironia per guardare sé stessa, ne vuole fare una cifra del suo stile, ma in alcune delle tante frasi senza verbo l’ironia diventa prosopopea.

Tra i cinque finalisti, il romanzo di Nucci è sicuramente il più ambizioso dal punto di vista linguistico. Qui il flusso verbale è inarrestabile, fluviale, capace di restituire il coinvolgimento dei sensi.

Le descrizioni si susseguono senza soluzione di continuità, gli atti significativi e quelli ordinari sono indistinguibili. Nella seconda parte anche i ricordi e gli eventi del presente si sovrappongono fino ad arrivare a una scrittura ipnotica, sovraccarica, che fa sì che il lettore abbia l’impressione di farsi spazio in una giungla, sommerso non solo dalle liane, dalle piante, dagli animali, ma anche dagli odori, dalle sensazioni.

Le lacrime calde venivano giù lungo le guance e s’infilavano sul collo tra la sciarpa e la barba e gorgogliavano nelle orecchie e in gola e scendevano sempre più copiose mentre il corpo improvvisamente enorme e incontrollabile sussultava, rabbrividiva in singhiozzi e non si teneva più, debordava e non permetteva di smettere.

È giusto obbedire alla notte è un romanzo in cui la psiche sembra inesistente, fatto solo di azioni e di sensi, un romanzo iperestetico, emotivamente molto esigente. Leggendolo non si ha mai il sollievo di una narrazione strutturata; la sensazione onirica finisce per coprire tutto il resto. Può riuscire di immergersi nella scrittura, ma può anche capitare di restare stordito dalla prosa torrenziale, dai dialoghi interminabili che rendono difficile individuare chi parla.

Teresa Ciabatti, 2017. (Grazia Ippolito, Rosebud2)

Anche la scrittura di Marasco è ambiziosa: la cornice narrativa è una specie di lungo testamento spirituale che Vincenzina pronuncia sull’orlo della morte attraverso la voce della figlia. L’aggettivazione ricchissima e originale al limite dell’imprevedibile, l’uso del dialetto nel discorso diretto e la personificazione degli oggetti rendono La compagnia delle anime finte un libro melodrammatico, parte di quel realismo magico napoletano a basso voltaggio che va da Eduardo De Filippo ad Anna Maria Ortese, fino a Elena Ferrante. Marasco sceglie di calcare sul senso tragico tipico di questo filone, con l’unico rischio di rendere alcune scene anticate.

Vincenzina la guardava anche mentre stendeva i panni e quella rispondeva con gli occhi delle bifore bucate. Rispondeva in ogni stagione, una volta soffiando aliti di vento e un’altra con le rondini che entravano e uscivano dalle crepe più profonde. Vincenzina in questo tempo ignorava che la torre sarebbe diventata un cardine della vita e il cielo sopra la merlata la sua coscienza infelice.

Cognetti e Rollo sono due narratori illuministi. Cognetti lo è per scelta; Rollo per educazione, verrebbe da dire. La lezione dei grandi scrittori americani, da Ernest Hemingway a Raymond Carver, che Cognetti ha sempre omaggiato, in Otto montagne serve a lasciare spazi vuoti che il lettore può riempire di inquietudine e di senso.

Cognetti è bravo a usare le ellissi: i paragrafi sono brevi, gli archi temporali ampi, i dialoghi ridotti al minimo, le allusioni contano più che le dichiarazioni. La sfida, la stessa degli altri suoi libri, è raccontare vite di personaggi sfuggenti, privi di grandi desideri, silenziosi.

Il correlativo oggettivo di tutto questo è la natura: gli animali, le piante, la neve, gli alberi. Solo a un contatto ravvicinato con loro, l’essere umano ritrova il senso della sua esistenza: la fame e il piacere della libertà, il senso della solitudine e quello della compagnia, la sua mortalità.

Le prede che i corvi si stavano spartendo erano cadaveri di pesci (…). Sotto, l’acqua aveva già ricominciato a gelare. Ma questo era ancora uno strato sottile, trasparente, scuro, simile al ghiaccio che avevo visto in autunno. Alcuni corvi litigavano per una trota lì vicino e in quel momento ci trovai un’ingordigia insopportabile, così con due passi e un calcio li feci volare via. Sulla neve ormai non restava che una poltiglia rosa.

Se Cognetti è un narratore accortissimo, è vero però che nella seconda parte del romanzo è come se si fidasse troppo della sua strumentazione, e la scelta stilistica secondo cui less is more sembra non consentirgli di portare il romanzo altrove: il destino dei suoi personaggi appare segnato e ciò che possono fare è solo ricalcarlo giorno per giorno.

Un’educazione milanese di Rollo da un punto di vista stilistico è invece discontinuo. È più affrettato quando insiste nel diventare sociologico e cronachistico, con un rischio “effetto nostalgia” che rende il romanzo meno esemplare; è però convincente, anche commovente, nelle parti in cui non smette di fare l’intellettuale e mescola lo sguardo partecipe a quello riflessivo.

Ma che cos’è una biografia, mi chiedo ora schiacciato contro la superficie diseguale della parete? Non riesco a mettere in fila nulla se non quel tempo, se non quel segmento di tempo dentro un’ansa larga di tempo. Chiudo gli occhi solo per riaprirli lentamente e lasciar entrare la luce intensa delle lampade sotterranee.

In conclusione, i romanzi finalisti di quest’anno mostrano una consapevolezza letteraria alta rispetto ad altre cinquine: non ci sono libri decisamente minori di autori talentuosi (era capitato per esempio con testi vincitori come Storia della mia gente di Edoardo Nesi o Come dio comanda di Niccolò Ammaniti), né romanzi interessanti magari solo dal punto di vista documentale o in gara per il prestigio del nome (vedi i testi di Luciana Castellina o Vittorio Sermonti).

Tuttavia, il gruppo dei migliori libri usciti negli ultimi dodici mesi sicuramente comprendeva anche Leggenda privata di Michele Mari (edito da Einaudi come Cognetti) o Bruciare tutto di Walter Siti (premio Strega per Resistere non serve a niente), Il brevetto del geco di Tiziano Scarpa, Scherzetto di Domenico Starnone (entrambi Einaudi e già vincitori), o testi di case editrici che hanno deciso di non investire quest’anno energie e soldi nella gara: da Cleopatra va in prigione di Claudia Durastanti (minimum fax) a Mi chiamo Sara, vuol dire principessa di Violetta Bellocchio (Marsilio), da La città interiore di Mauro Covacich (Nave di Teseo) a Absolutely nothing di Giorgio Vasta e Ramak Fazel, per fare solo pochi esempi.

Purtroppo, per le regole scritte e per quelle non scritte dello Strega molti di questi libri sono esclusi dalla competizione a prescindere: perché c’è l’idea che non abbia senso candidare più titoli della stessa casa editrice; o che chi ha vinto una volta non partecipi di nuovo; oppure che se un romanzo partecipa ad altri premi, tipo il Viareggio o il Campiello, non sia buona pratica presentarlo anche per lo Strega; ovvero che se non si ha un ufficio stampa in grado di competere con quelli dei grandi gruppi si va incontro a sconfitta sicura.

Sono tutti limiti da superare. La gara sarebbe più ricca e la battaglia tra lettori per difendere la propria idea di letteratura eviterebbe di delegarla alle capacità di promozione degli editori, come spesso accade. Credo che sia quello che vorrebbero gli stessi autori.

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Da sapere

Il premio Strega è stato fondato da Maria e Goffredo Bellonci a Roma nel 1947. Il primo a vincerlo è stato il romanzo Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. Un solo autore l’ha ricevuto due volte: Paolo Volponi, nel 1965 e nel 1991. Le autrici premiate finora sono dieci. Nel 2006 il testo della costituzione italiana ha ricevuto un premio Strega onorario. La selezione: ogni titolo è presentato da almeno due Amici della domenica e tra questi titoli se ne scelgono dodici. Ogni giurato assegna la sua preferenza a tre opere, le cinque più votate andranno in finale. L’ultimo scrutinio (con i voti degli Amici della domenica, a cui si aggiungono quelli di librai indipendenti, insegnanti, studiosi e traduttori) stabilisce il vincitore. Nel 2016 è stato La scuola cattolica di Edoardo Albinati.

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