16 settembre 2016 16:02

Il Dido and Aeneas è uno strano oggetto, sia dal punto di vista musicale sia da quello teatrale. Commissionato a Henry Purcell (1659-1695) e al librettista Nahum Tate alla fine del seicento dal maestro di ballo di un collegio femminile di Chelsea, è un’opera in miniatura. Un capolavoro di asciuttezza strumentale e vocale, in cui un organico orchestrale e vocale ristrettissimo ricama una serie di scene che ripercorrono la vicenda dell’amore tragico tra Didone, regina di Cartagine, e l’eroe troiano Enea, figlio di Venere, destinato a fondare Roma.

L’operina in sé, dall’ouverture al coro finale, dura poco meno di un’ora e non si sa nulla di come venisse eseguita all’epoca. Nell’Inghilterra di fine seicento l’opera, che si andava sviluppando in Italia come “recitar cantando”, non usava ancora, e i vari segmenti corali, duetti o arie, venivano interpolati da tipi di spettacolo diverso: intermezzi buffi, lunghi brani recitati o, a volte, numeri circensi. Questo tipo di spettacolo ibrido, tipicamente inglese, veniva chiamato masque. È probabile che le poche riprese che furono fatte del Dido and Aeneas alla fine del seicento e all’inizio del settecento siano state eseguite in forma appunto di masque, con danze, accompagnate da chitarra, a inframezzare i brani più propriamente operistici.

La musica del Dido and Aeneas è altrettanto multiforme. Con grande economia di mezzi Purcell riesce a mescolare duetti in stile madrigalistico, arie all’italiana (il famoso lamento di Didone che chiude l’opera) e danze alla francese. La ricchezza della sua tavolozza gli permette anche colpi di teatro che nascono proprio dalla partitura: la tempesta, l’onomatopea del coro delle streghe e lo straordinario coro con l’eco che chiude il secondo atto. Il paradosso di questo lavoro, che in epoca moderna siamo abituati a vedere rappresentato più che altro in forma di concerto o semiscenica, è che è puro teatro. È la musica stessa che sembra richiedere un palcoscenico, dei movimenti, dei costumi e delle danze.

Il Dido and Aeneas con la regia di Sasha Waltz, anteprima del Romaeuropa Festival al teatro dell’opera di Roma, cerca di raccogliere la sfida scenica di questa straordinaria pagina di musica antica con i mezzi del teatro danza contemporaneo.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Quello di ibridare l’opera con il teatro danza è un esperimento che è stato già fatto in passato. La coreografa tedesca Pina Bausch tra tutti, con il suo Orfeo ed Euridice di Gluck seppe creare uno spettacolo rigoroso che pur prendendosi molte libertà, dal punto di vista estetico aderiva alla severa riforma del melodramma del compositore settecentesco.

Sasha Waltz è molto più libera e le libertà che si può prendere se le gode tutte: il teatro musicale inglese di fine seicento era talmente proteiforme e poco codificato da permetterle ogni tipo di sperimentazione. E di esagerazione.

Secondo l’uso barocco, l’opera si apre con un prologo in cui gli dei, accompagnati da divinità marine, presentano al pubblico l’argomento dell’opera in termini simbolici. Sasha Waltz mette al centro della scena una grande vasca, un acquario in cui i movimenti dei danzatori ricordano i fregi dei sarcofaghi antichi. Festose divinità marine, simbolo di vita, che decorano una tomba, a ricordarci che il grande amore di cui ci apprestiamo a seguire le vicende finirà con un corpo morto in scena, quello della sventurata Didone. Il primo atto, quello in cui veniamo messi a conoscenza dell’amore tra Didone ed Enea, è sensuale e carnevalesco. Le danze e i cori pastorali di Purcell si trasformano in uno scollacciato carnasciale, con danze gioiose e un lungo intermezzo comico che è forse la parte meno a fuoco dello spettacolo.

Dido and Aeneas. (Yasuko Kageyama, Teatro dell’Opera di Roma 2015-2016)

La bellezza del teatro di Waltz emerge appieno nel secondo atto. Dopo un sabba di streghe alla fine del quale i danzatori contorti come anime dannate di Bosch prendono la forma scultorea di un bassorilievo indiano, si apre un idillio pastorale. Belinda, la sorella e confidente di Didone (l’eccellente Deborah York), canta un’aria in cui descrive la bellezza della natura che la circonda. Una natura fertile e generosa che è stata però anche teatro del dramma di Atteone, divorato dai cani di Diana per il suo amore empio. Thanks to these lonesome vales è una bellissima aria italiana che dietro alla sua serenità lascia presagire il dramma che si sta per consumare.

Vedere una compagnia così affiatata di artisti capaci di uscire dalla propria zona di sicurezza è in sé uno spettacolo nello spettacolo

L’apice del dramma, e della plasticità barocca dei danzatori della compagnia di Sasha Waltz, arriva nel terzo atto. Cantanti e danzatori si dividono in due gruppi che ricordano le sculture di Bernini o certe scene mitologiche di Guido Reni, con capelli e drappi drammaticamente mossi dal vento. Didone ed Enea cercano di toccarsi ma non ci riescono, sospinti dalle rispettive forze che li separano. Enea è innamorato e vorrebbe restare a Cartagine, ma sa che il suo destino è raggiungere il Lazio per fondare Roma. Didone è offesa, come regina si vergogna della sua debolezza, e in più sente che la città che il suo amante andrà a fondare schiaccerà e distruggerà la sua Cartagine. La musica di Purcell e la danza qui raggiungono una fusione completa e l’intera operazione di Sasha Waltz appare non solo legittima ma anche straordinariamente riuscita.

L’opera si avvia alla conclusione con il famoso lamento di Didone. Un’aria talmente famosa da essere finita anche nel repertorio di diversi cantanti pop, da Jeff Buckley ad Alison Moyet. When I am laid in earth viene cantata con pathos composto dalla brava Aurore Ugolin. Le sue lunghissime extensions che si trasformano in un sudario sembrano una buona idea all’inizio, ma la scena rischia di scivolare in territorio Marina Abramovic.

Il Dido and Aeneas di Sasha Waltz, nel suo eclettismo coraggioso, è uno spettacolo generoso e coinvolgente. I cantanti si mescolano in modo perfetto con i danzatori e danzano loro stessi, dando prova di duttilità straordinaria. Vedere una compagnia così affiatata di artisti capaci di uscire dalla propria zona di sicurezza è in sé uno spettacolo nello spettacolo.

Quando sul coro funebre finale (With drooping wings ye cupids come) viene sollevato il fondale, un ricordo minimalista e monocromo degli splendidi fondali dipinti settecenteschi, vediamo la nuda macchina scenica del teatro, con carrucole, luci al neon, cavi e tubi innocenti. Per quanto didascalica, la scelta di Waltz è molto poetica: lo spettacolo è finito e il teatro torna a essere una scatola vuota, qualche asse di legno inchiodata insieme e una platea vuota.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it