06 settembre 2022 13:31

Mai giudicare un disco dalla copertina. Ma può capitare che una copertina sia così affascinante da colpirti prima ancora di aver sentito una nota. Se poi quella copertina ti viene ricordata, per puro caso, da un libro che stai leggendo, allora quel disco non può essere ignorato.

È quello che mi è successo questa settimana leggendo, per puro caso, An object of beauty, un libro che il comico statunitense Steve Martin ha scritto nel 2010. Nel 2012 è uscito anche in italiano col titolo Oggetti di bellezza (Isbn edizioni). L’ambiziosa protagonista della storia, Lacey Yeager, ha una nonna che da giovane era stata modella di un pittore e illustratore statunitense di nome Maxfield Parrish (1870-1966). Nel racconto Lacey mostra al narratore una stampa in cui si vedono un colonnato classico aperto su un paesaggio favoloso con una ninfa distesa e sorridente che viene svegliata da una compagna nuda che si china su di lei. “Ha novantadue anni”, dice Lacey, “Ha ancora quella pelle, ma i capelli rossi sono andati”. Il quadro s’intitola Daybreak, fu dipinto nel 1922 ed è quella che oggi chiameremmo una scena “fantasy”, un compromesso tra la pittura accademica di Lawrence Alma-Tadema e l’immaginario del Signore degli anelli.

La descrizione del quadro corrisponde esattamente alla copertina del disco di un gruppo new wave che non sentivo più da decenni. Un rapido giro su Google me lo conferma: la nonna di Lacey era finita sulla copertina dell’album di debutto dei Dalis Car, progetto parallelo di Peter Murphy dei Bauhaus e Mick Karn dei Japan. Scopro anche che l’anno prima lo stesso dipinto, pesantemente solarizzato, era stato scelto per la copertina di The present dei Moody Blues. Insomma Daybreak, un quadro tardo accademico e blandamente erotico degli anni venti del novecento, gode di un’inaspettata fortuna pop tra romanzi di comici famosi e copertine di dischi. E nessuno mi toglie dalla testa che il video di Michael Jackson per You are not alone, in cui lui e la allora moglie Lisa Marie Presley si trastullano seminudi in un’Arcadia al neon, sia ispirato al nostro Maxfield Parrish.

L’album dei Dalis Car, uscito nel 1984, s’intitola The waking hour (L’ora del risveglio) e l’alba favolosa dipinta da Maxfield Parrish è la migliore introduzione visiva a una musica che ancora oggi suona originale e senza tempo. Il miracolo di questo album quasi dimenticato è nella coerenza estetica e nel rigore che mancavano a gruppi ben più famosi e geniali che cercavano una loro via d’uscita dal post-punk verso la metà degli anni ottanta. I Cure di The top e i Banshees di Hyaena, nel 1984, si erano avvitati in un esotismo psichedelico un po’ barocco che, anche nei suoi momenti migliori, lasciava trasparire un eccesso di sperimentalismo. Peter Murphy alla voce, Mick Karn al basso e Paul Lawford alle percussioni creano invece un suono e un’estetica granitici. Riascoltando The waking hour in cuffia oggi si rimane colpiti da come il basso liquido e proteiforme di Karn sia in continuo dialogo con il tappeto percussivo variegato e imprevedibile disteso da Lawford. L’elemento esotico e orientalista c’è anche qui ma non è un’applicazione posticcia o un fatto puramente decorativo: è un modo di arrangiare e di suonare. I tabla che aprono Create and melt non sono un vezzo orientaleggiante: sono la base di un arrangiamento dissonante ed estremamente interessante. Tutto l’album è alla ricerca costante di un equilibrio tra drone music e canzone pop ed è proprio questa precarietà a rendere l’ascolto di The waking hour un’esperienza così diversa dall’ascolto, pur appassionante, dei dischi dei Cure e di Siouxsie dei quel periodo.

Dali’s car, il pezzo che dà il nome alla band e che apre l’album, parte con un basso che si avvita in aria virtuosamente e un arpeggio di synth che sembra un flauto. Il titolo arriva dal nome di un pezzo strumentale di Trout mask replica, l’ermetico capolavoro del 1969 di Captain Beefheart and His Magic Band. È quasi una dichiarazione d’intenti: i Dalis Car vogliono riallacciarsi alla tradizione allucinata e dissonante della psichedelia più decadente della fine degli anni sessanta, ma per farlo seguono un filo esotico e misterioso che li porta verso oriente. Un filo che forse è legato alle origini greco-cipriote di Karn il cui vero nome è Andonis Michaelides.

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The judgement is the mirror è stato l’unico singolo tratto dall’album ed è la cosa più vicina a una canzone dei Japan che si può ascoltare qui. Anche il testo cerca di descrivere il ritmo di questa strana musica da ballo: “Il primo passo è il peggiore, la danza è nuova, lo slancio è forte, come onde che si gonfiano tutto intorno”. E il suono è ipnotico, circolare e ripetitivo.

È sorprendente scoprire che un suono così coeso e originale sia nato con pochissimo contatto fisico tra i musicisti. In un’epoca in cui email e trasferimento veloce dei file erano ancora il sogno di un futuro lontano, Murphy e Karn si scambiavano i nastri e lavoravano in solitudine. Forse proprio questa distanza dà a The waking hour un’aura di solenne eccezionalità. Questo disco è veramente un unicorno: a tutt’oggi rimane l’unico album dei Dalis Car che, forse spinti dal revival del post-punk e dalla malattia di Karn a cui era stato diagnosticato un tumore, si sono ritrovati nel 2010 per un incidere un ep con materiale inedito. Mick Karn è morto a Londra nel gennaio del 2011.

Dalis Car
The waking hour
Paradox/Beggars Banquet, 1984

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