03 aprile 2024 12:30

“Il miglior amico che una canzone abbia mai avuto”: così il comico, presentatore e musicista statunitense Jack Benny definì il pianista, arrangiatore, cantante, attore e superstar Nat “King” Cole (1919-1965). Non riesco a immaginare definizione migliore per descrivere il Cole cantante: era davvero un amico delle canzoni che sceglieva, sembrava prenderle per mano e portarle con sé a braccetto con una naturalezza e una delicatezza che nascondevano ogni artificio e facevano sembrare tutto facile. Nat “King” Cole, insieme a Frank Sinatra, è stato uno dei grandi crooner degli anni quaranta e cinquanta, e uno dei pochissimi afroamericani ad avere un successo mainstream bucando la bolla dei “race records”, i dischi realizzati da artisti neri per un pubblico esclusivamente di neri, per entrare nell’empireo della musica pop statunitense.

Nat “King” Cole però prima che un cantante era un pianista eccezionale. Negli anni trenta aveva diretto una sua big band, come era di rigore a quell’epoca. Però lavorava nei locali anche da solo come pianista e con il suo trio aveva inventato un suono nuovo, uno swing “da camera” che non aveva bisogno di una grande, fragorosa band: bastavano lui al pianoforte, un contrabbasso e una chitarra. Il trio era agile, compatto, molto più facile da governare di una grande band e presto aveva trovato un suo suono inconfondibile.

Nel 1940 Cole ha cominciato a cantare. La leggenda vuole che il padrone di un locale in cui si esibiva, ubriaco, gli avesse chiesto di cantare una canzone, Sweet Lorraine, che sarebbe diventata la sua prima hit come cantante. La storia era fasulla ma a Cole piaceva raccontarla: in realtà una sera gli fu chiesto a gran voce di cantare una canzone che lui non conosceva e quindi decise invece di cantare Sweet Lorraine, di cui conosceva le parole.

“Io avevo cominciato come pianista jazz”, ha detto Cole nel 1956 a Voice of America, “ma poi mi sono messo a cantare, cantavo come mi sentivo e alla fine le cose si sono messe così”. Come tutti i grandi artisti Nat “King” Cole fa sembrare tutto facile, effortless come si dice in inglese, ed è abile a nascondere tutta l’impalcatura tecnica che si nasconde dietro a quel modo vellutato e confidenziale di cantare. Un canto che sembra un segreto sussurrato all’orecchio da un amante o la confidenza riservata di un amico. Nessuno cantava come lui, neanche Sinatra. E infatti diventò una superstar grande come Sinatra, se non più grande visto che morì di cancro nel 1965, ancora all’apice del successo non solo discografico ma anche televisivo.

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Tra tutti gli album memorabili di Nat “King” Cole After midnight (registrato con il suo trio nel 1956) è quello che meglio mette in luce la sua duplice, anzi triplice funzione, di pianista, arrangiatore e cantante. Cole era infatti in grado di guidare il trio, di suonare le parti di pianoforte solista e di cantare come nessuno sapeva cantare. Il titolo, “dopo mezzanotte”, svela la natura estemporanea della musica del trio: niente di troppo provato o troppo scritto, solo un trio di musicisti molto legati tra di loro che improvvisano su alcuni standard famosi, molti già nel loro repertorio da una decina d’anni.

After midnight non è tanto un’esplorazione di nuovo materiale quanto un modo nuovo di suonare, rilassato e amichevole, e il pubblico degli anni cinquanta, da poco abituato a comprare e ascoltare in casa i long playing a 33 giri, veniva invitato come a un party tra amici. A produrre e a lanciare l’album sul mercato c’era la Capitol records, l’etichetta discografica che proprio nel 1956 cominciò a costruire, al 1750 di Vine street a Los Angeles, la modernista e inconfondibile Capitol Records Tower, che passerà alla storia come “The house that Nat built”, la casa che fu costruita da Nat “King” Cole.

After midnight dunque è un album perfettamente in equilibrio tra il Nat Cole jazzista e il Nat Cole cantante. Ed è un disco facile e difficile allo stesso tempo. È facile perché è orecchiabile, suadente e irresistibile: non hai bisogno di essere un conoscitore di jazz per apprezzarlo, è easy listening nel senso più nobile e sofisticato del termine. È difficile perché, dopo qualche ascolto, ti accorgi che Nat “King” Cole è un solista jazz sopraffino anche quando canta in quel modo così spigliato e apparentemente informale. Il suo fraseggio è molto ritmico ma Nat fa in modo che questo suo swing non sia così evidente. Noi sentiamo un flow elegante e impeccabile perché lui fa molta attenzione a dove mette le note e a dove fa cominciare una parola e dove la fa finire. Come dice il drammaturgo e paroliere Murray Horwitz, “la sua voce è una pulsazione che sfida il ritmo della canzone e a volte ci va addirittura contro. E ti tiene sempre vigile, col sedere sul bordo della sedia, anche se quella che senti è una meravigliosa ballata”.

Solisti eccezionali

Il trio che sta alla base di After midnight è formato da Nat “King” Cole (pianoforte e voce), Charles Harris (contrabbasso) e Lee Young (batteria). A questo nucleo si alternano, a seconda dei pezzi, alcuni importanti solisti: Willie Smith al sax contralto, il portoricano Juan Tizol al trombone, Harry Edison alla tromba, Stuff Smith al violino e Jack Costanzo al bongo. Il repertorio è un mix di hit già ben note al pubblico e di pezzi meno ovvi: l’idea è di far suonare tutto come nuovo, in un contesto rilassato e lasciando spazio all’estro del momento e all’improvvisazione.

Just you, just me era una vecchia canzone tratta da un musical del 1929, Marianne, e aveva avuto varie vite, sia come pezzo cantato sia come strumentale. Il Nat “King” Cole trio ne aveva già registrato una trascrizione strumentale per la radio nel 1946, era quindi materiale ben rodato che Nat decise di includere per giocarci un po’ e per rendere chiaro fin dall’inizio che After midnight non era una sorta di “greatest hits” ma era un “jam album”, un disco d’improvvisazioni. E poi stavolta la canta, con la delicatezza e l’attenzione per il dettaglio che avrebbe caratterizzato il suo lavoro pop più maturo: in Just you, just me Nat dimostra che può essere romantico anche swingando a tutta velocità.

In quegli anni andavano di moda i balli latini e l’esotismo caraibico. In realtà è roba che non è mai passata di moda, neanche oggi, cambiano solo le varie ondate e i balli. La presenza del virtuoso del trombone portoricano Juan Tizol in ben tre pezzi è bizzarra: non era solo stato uno degli artefici del suono della grande orchestra di Duke Ellington, ma era anche un compositore. E il suo suono inconfondibile si sente anche nella versione di Night and day di Cole Porter realizzata da Sinatra per la Capitol. Tizol però non era tipo da jam session: era un musicista che veniva chiamato dai compositori per aggiungere colore alle loro partiture. Era stato anche uno degli autori di Caravan, una delle prime esotiche hit di Duke Ellington del 1936, e se si voleva riprendere quella splendida vecchia canzone, che parla di due amanti che si stringono durante una sosta della loro carovana nel deserto, Juan Tizol doveva essere a bordo. Il suo suono etereo si sposa con le percussioni di Jack Costanzo e questa Caravan del Nat “King” Cole trio è davvero un sogno da Mille e una notte, è la versione che tutti i cantanti contemporanei hanno in mente quando pensano a dove mettere le mani per fare quello standard. Il trio Cole-Tizol-Costanzo ricompare anche nella bellissima The lonely one, anche questa un pezzo di “exotica” a metà strada tra Medio Oriente e Caribe.

Un altro ospite di gran riguardo di After midnight è il violinista Stuff Smith, che era con il trio di Nat “King” Cole fin dagli inizi. Nell’album compare in tre tracce che sono, se ha senso fare delle classifiche in un lavoro così impeccabile, le migliori del disco. In Sometimes I’m happy Cole e Smith sembrano duettare, piano e violino si dividono equamente le strofe e sembrano parlarsi dolcemente, e nella velocissima I know that you know il virtuosismo di Stuff Smith mostra che nel jazz il violino solista può essere efficiente come il sassofono o la tromba. When I grow too old to dream, scritta nel 1934 da Sigmund Romberg e Oscar Hammerstein, era già molto popolare nei circuiti afroamericani e ne esistevano diverse versioni, tutte abbastanza swingate e veloci: Nat “King” Cole e Stuff Smith qui rallentano e lasciano a questa bella canzone tutto lo spazio per respirare, e qui è il Cole cantante che dà il tempo, lasciando spazio tra le parole del ritornello che dice: “Quando sarò diventato troppo vecchio per sognare”.

Il programma del disco originale del 1957 (ne esiste una ristampa del 1987 con cinque brani extra) si chiude con un classico del rhythm ’n’ blues,
(Get your kicks on) Route 66, un pezzo del 1946 già nel repertorio del trio. È un pezzo che racconta un viaggio da Chicago a Los Angeles, attraverso il mid-west degli Stati Uniti. Nel 1946 la canzone raggiunse il numero 3 della classifica dei race records di Billboard, grazie a questa nuova lussuosa versione cantata diventa uno standard inossidabile che è arrivato fino a noi: i Depeche Mode ne realizzarono una cover remixata dai Beatmasters nel 1987, per celebrare il loro primo trionfale tour negli stadi americani.

After midnight è un album unico e irripetibile per la sua studiata spontaneità. È una pietra miliare del jazz ma anche del pop: anzi siede proprio lì, perfettamente nel mezzo. È un lavoro che nella sua immediatezza e nella sua familiarità suona ancora talmente ricco da farci dire, insieme al vecchio violinista Stuff Smith, che Nat “King” Cole “aveva così tanta musica dentro il cuore, amico!”.

Nat King Cole and his trio
After midnight
Capitol, 1957

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