22 maggio 2018 14:46

Essere di destra come di sinistra richiede studio e capacità di maneggiare concetti che hanno una loro complessa tradizione. Ma diciamolo: appena si semplifica, andar giù per la china che porta a destra è assai più agevole che restare a sinistra.

Prendiamo Salvini: lui è pura destra e anche se giurasse di non esserlo voi non riuscireste a credergli, tanto si muove con naturalezza dentro pochi ma inequivocabili concetti. S’è dato una fisionomia così marcata che, perfino quando sgarra, i suoi fan sempre più numerosi esclamano: ah, che mossa abile. Prendiamo invece Di Maio. È un sinisdestro, rimescola di qua, rimescola di là. La conseguenza è che lui parla e voi pensate: bene; poi lui riparla e voi ripensate: macché.

Alla prova dei fatti, cioè, la postideologia, il trasversalismo, rischiano di fruttargli solo una fisionomia politica incerta. Tanto che mentre Salvini è ormai una manna per la destra – leghista, berlusconiana, a cinquestelle – Di Maio è in un bel guaio: se va alla sua destra sembra al servizio di Salvini e se va alla sua sinistra trova facce storte. O peggio: franose. Perché collocarsi a sinistra, in questi tempi duri, richiede un esercizio permanente. E se ci si lascia andare, non si diventa postideologici e trasversali, ma si comincia a dire: sì, dimezzare le tasse, lavoro agli italiani, fuori i pezzenti stranieri, una pistola in casa può servire.

Questa rubrica è uscita il 18 maggio 2018 nel numero 1256 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati

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