19 giugno 2018 17:48

Non bisogna lesinare sui complimenti, quando qualcosa ci piace. Complimentarsi con chi ha fatto un buon lavoro è bello, si prendono le distanze dall’inciviltà di chi dice male di ogni onesta fatica altrui. Il dubbio riguarda casomai le formule con cui ci complimentiamo. Se diciamo: “Questo libro fa di te il Foster Wallace italiano”, ci stiamo davvero complimentando? Se diciamo: “Ottimo, scrivi come Elizabeth Strout”, ci stiamo davvero complimentando? È difficile dire. Anche perché il complimento si trova a volte nelle quarte redazionali di copertina e nelle didascalie della pubblicità, e i librai gradiscono, i lettori s’incuriosiscono, gli scrittori sono contenti.

Avanzare quindi l’ipotesi che ci sia qualcosa di sbagliato in questo tipo di lode è un po’ rompere le uova nel paniere. È sicuro che agganciare un nome ancora di scarsa risonanza italiana a uno – mettiamo – di grande risonanza angloamericana sia la strada più breve e più efficace per dire sinteticamente i meriti di un libro? Quell’etichetta ti riduce a epigono già in giovane età, ti obbliga per il futuro a tenerti inutilmente nella scia di Wallace o di Strout (senza parlare di Proust, di Musil eccetera). Meglio, forse, fare lo sforzo di individuare nel lavoro che ci è piaciuto la scheggia anche piccolissima che ci ha entusiasmati e che – per quel che ricordiamo – non ci ha rimandati a nient’altro.

Questa rubrica è uscita il 15 giugno 2018 nel numero 1260 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero| Abbonati

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