10 settembre 2020 17:49

Molto bello, sfaccettato e non mancherà di far discutere perché problematico dietro un’evidenza che ne cela la complessità: è Notturno, il nuovo documentario di Gianfranco Rosi, filmato nell’arco di tre anni sui confini di Iraq, Siria, Kurdistan e Libano, ora giunto nelle sale italiane in parallelo con la sua presentazione nel concorso di Venezia 77.

Tutto qui è al confine, ai limiti, demarcato da una linea sottile quanto l’orizzonte del deserto. Tutto sembra facilmente reversibile, perché entrare in ogni immagine è come entrare in uno specchio dal vetro sottilissimo e dal quale si esce come rovesciati in un batter d’occhio. Per vedere con occhi nuovi la bellezza del mondo, che è dappertutto, in ogni anfratto della realtà, in ogni momento, anche nelle aree del mondo deturpate dalla guerra. Facendo coabitare senza soluzione di continuità situazioni disparate in luoghi di volta in volta diversi come un flusso unico, un organismo unico: quello dell’Umanità con la U maiuscola, l’unica razza esistente al mondo, come diceva Gandhi. Un’osmosi che rovescia la logica in cui sono immerse quelle popolazioni, perse nelle querelle geografiche ed etniche, perse nell’odio e nel dolore che suscitano.

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In realtà, siamo tutti persi nel frammento invece di vedere le cose nella loro totalità, privi di uno sguardo panoramico, globale, sull’essenza di quello che conta al mondo, in modo da tornare a vedere quello che ci accomuna tutti piuttosto che le differenze, come diceva John Fitzgerald Kennedy. Il quale, dopo il suo celebre discorso sulla pace del giugno del 1963 agli studenti dell’American University, si sentirà dire da Nikita Krusciov di aver pronunciato il più grande discorso di un presidente statunitense dai tempi di Franklin D. Roosevelt. Mentre gli americani si sentiranno dire da Walter Cronkite – celebre anchorman della tv davvero unificante – che il presidente in appena 48 ore aveva chiesto ai suoi concittadini di guardare ai neri e poi ai russi come a degli esseri umani. Senza soluzione di continuità, senza più frontiere, senza più ostacoli o paraocchi mentali. Tornare a vedere, saper guardare, quindi. E questo è vero anche per Rosi. Così il regista crea una magia spirituale di comunanza e affratellamento che pare più prossima al viaggio interiore, e sotto questo aspetto il cineasta sembra riallacciarsi idealmente, anche se può sembrare un paradosso, al suo documentario d’esordio girato in India, Boatman (1993), su un barcaiolo di Benares che costeggia le sponde del fiume Gange.

Qualcosa di panteistico affiora anche per la maniera di riprendere e fotografare i paesaggi, sorta di contrappunto provocatorio e poetico insieme al dolore vissuto con la guerra. Una delle cose più belle di questo film è che il regista osa ancora una volta, senza sedersi sugli allori, senza aver paura di sconcertare. E più ci si riflette più si ha l’evidenza di un’opera alta, non soltanto forte e innovativa. Così, alla ricerca di anfratti di poesia, quasi incongrua, ma perché incongrua è la realtà, abbiamo delle apparizioni come un cavallo solitario nella notte della città, inquadrato a lungo dopo che una colonna di militari ne aveva quasi occultato la visione e che la camera – intesa come come sguardo sul mondo perché il cinema è sguardo – invece ci rivela. O una giovane donna che poco dopo, sempre nella notte e nella precarietà dei luoghi esterni, parla della bellezza della pioggia. È una peshmerga curda.

Queste istantanee sono il rovescio speculare di altre sequenze come quella, magistrale, di un bambino yazida che descrive i disegni degli altri bambini, disegni che vedono l’onnipresenza dei guerriglieri del gruppo Stato islamico (Is). Magistrale anche per quello che rivela del bambino: niente lacrime, una descrizione sobria, un volto mesto che sembra rivelare un dolore rientrato ma che cova. La ricerca di speranza e la disperazione che la annichilisce sono costantemente speculari e costantemente labile ne è il confine. In questo viaggio interiore che trascende le coordinate di spazio e tempo per raccontare un’umanità sofferente e cogliere malgrado tutto forme di bellezza mediante un’apparente leggerezza e un tono fluttuante, è però concentrata una quantità impressionante di temi e situazioni gravi. Rosi innova ulteriormente modalità di narrazione e frontiere del documentario del cinema d’autore.

Rosi porta lo spettatore realmente in viaggio nell’ambiguità del reale e della sua rappresentazione

Diverso da quello giornalistico, perché è un punto di vista, una sensibilità che cerca d’interpretare situazioni composite quando non caotiche della realtà, ma che al contempo vuole lasciare allo spettatore la possibilità di una sua interpretazione. Rosi ci porta al confine, ai limiti dell’immagine, su quanto sia sottile il confine della verità nell’interpretare in un senso o nell’altro le immagini nelle quali siamo immersi e la realtà stessa che ci circonda. La sua ambiguità di fondo. Rosi ha lavorato spesso su questo aspetto, il suo cinema presuppone dallo spettatore un impegno nell’interrogarsi su quello che vede e sul fatto che sia la realtà sia la sua rappresentazione sono duali: il caso più evidente nella sua filmografia resta El Sicario, room 164 (2010), monologo agghiacciante e al contempo trascinante di un ex killer del narcotraffico messicano girato da una stanza di un motel.

Il fatto che cerchi d’individuare e comunicare una forma d’incanto, è anche questa una forma cosciente di ambiguità: quanti documentari naturalistici dalla grande bellezza visiva ci rappresentano un mondo crudele che non lascia scampo per i più deboli? Quanti programmi scientifici degli ultimi decenni ci hanno rivelato che dietro l’immobile, poetica volta notturna di puntini luminosi che nutrono da sempre il nostro romanticismo, si nascondono corpi celesti immersi in spazi silenziosi, in continuo movimento e dalle dinamiche violentissime? Se è vero che ogni opera d’arte, anche quella che ha una rivestitura d’intrattenimento, anche quella più prosaica che documenta il reale, indaga la dimensione metafisica, allora qui Rosi porta lo spettatore realmente in viaggio nell’ambiguità del reale e della sua rappresentazione, in un ambito e in un contesto in cui a volte si eccede nelle semplificazioni, nei bianchi e nei neri.

In tal senso vanno viste sequenze dove il cineasta ha chiesto a dei singoli di ricreare per il film alcune situazioni, come nel caso della madre che accarezza le mura della prigione dove è stato richiuso, torturato e ucciso il figlio, esprimendo al mondo tutta la sua tenerezza per lui. Tutto questo rappresenta il dolore ma anche la follia del genere umano, un’insensatezza che ovviamente coinvolge anche la politica metaforizzata dalla rappresentazione teatrale messa in scena da pazienti di un’ospedale psichiatrico. Chi è più savio? Rosi riesce nell’exploit di filmare i combattenti dell’Is rinchiusi con le loro tute arancioni in una prigione che è un immenso stanzone in cui dormono ammassati l’uno sull’altro: destinazione finale di un tragica insensatezza e condizione inumana imposta a chi ha aderito a un’ideologia inumana.

Se è vero che “Notturno è un film di luce dai materiali oscuri della storia”, come recita la nota di regia, Rosi sembra anche dirci che l’oscurità è attraente e dietro l’angolo in qualsiasi momento. Insensatezza, ambiguità, ma anche stagnazione, che ritroviamo nella diaspora infinita israeliano-palestinese. Il regista israeliano Amos Gitai con Laila in Haifa ha rappresentato questa palude sotto forma ironica ed empatica, lavorando bene sulle situazioni e notevolmente sulle atmosfere. Ambientato in un locale notturno di Haifa con un cast di attori sia palestinesi sia israeliani, qui tutti sono alla pari, moderati e radicali, gay ed etero, uomini e donne. E se le donne dominano la scena, come suggerisce il titolo, tutti sono affratellati in questa rappresentazione di Gitai che offre un bello spaccato di tipologie e mentalità di quei luoghi.

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