24 maggio 2024 13:01

Anora dello statunitense Sean Baker, il ritratto di una ballerina di striptease in un night club per uomini, è una delle sorprese di questo Cannes e forse la vera sorpresa del Concorso. E secondo molti una possibile Palma d’oro. Christophe Honoré, insieme a Chiara Mastroianni, incanta con Marcello mio – ora nelle sale italiane – strana inversione di ruoli e sessi con al centro il celebre padre dell’attrice, Marcello, grande icona del cinema del novecento. Invece Parthenope di Sorrentino non convince.

Anche in Anora vi è in qualche modo un’inversione dei ruoli come in Marcello mio, solo in modo meno esplicito. Qui abbiamo una vacuità che si fa crudeltà contro la sostanza intesa come interiorità, tra romanticismo non dichiarato e dignità combattiva, qualità esclusive di un personaggio femminile che resterà nella storia del cinema.

Anora, detta Ani (Mikey Madison, già vista in C’era una volta a… Hollywood di Tarantino), è una bella ragazza che lavora come ballerina di striptease in un grande night di Las Vegas, e che poi deve accettare di andare, come le colleghe, in cabine esclusive con clienti ricchi. Il regista Sean Baker – dedito a ritratti di personaggi fuori dagli schemi, compreso il precedente Red rocket, incentrato su un pornostar – con maestria consumata ci fa entrare fin da subito in questo locale da sballo per ricchi. Ma anche in un racconto pulsante, sapendo dosare tempi ed estetica, sia visiva sia sonora – ormai nel cinema anche il suono è estetica – senza farsene fagocitare e senza cadere in quella da pubblicità, dove conta solo la posa e il patinato, più o meno elegante.

Lo fa presentando quasi subito il protagonista maschile. Una volta tanto Ani ha davanti non un uomo maturo, ma un ragazzo dalla grande vitalità, dall’indubbio sex appeal e che ispira simpatia: Vanja (Mark Eydelshteyn, una rivelazione) che offre quindicimila dollari alla donna per portarla nel suo enorme e lussuoso appartamento. Il legame diventa così forte fino al punto di sposarla.

Sembra emergere una situazione che è la quintessenza del romanticismo dopo la mercificazione. Ma Vanja è figlio di un potente oligarca russo. I genitori appena apprendono cosa sta per succedere decidono di partire per gli Stati Uniti con il fine di far annullare un matrimonio ai loro occhi disonorevole, e intanto ordinano ai loro uomini di occuparsi della faccenda. Nella seconda parte ne viene fuori un forsennato film d’azione misto a toni da commedia, venata d’ironia e satira sociale: Ani si ribella come una giovane tigre, mentre Vanja fugge pieno di rabbia, abbandonandola.

A questo punto il film gradualmente scivola in una sorta di zona grigia: molto combattiva all’inizio, Ani si allea pian piano con gli uomini dell’oligarca, anche se si capisce che spera in un sussulto chiarificatore di Vanja. Pian piano emerge un legame inatteso, per molto tempo rimasto sotterraneo, con il più giovane degli uomini dell’oligarca, magnificamente interpretato da Jurij Borisov (già visto nell’eccezionale Scompartimento n. 6. In viaggio con il destino del finlandese Juho Kuosmanen). Lontano dal manicheismo, Baker dà una possibilità anche ai russi e delinea un bellissimo personaggio maschile che grazie ad Ani diventa un uomo migliore, pur con i suoi peccati.

Il risultato è un’affresco sociale che attraversa le classi e le geografie. A ben vedere questo film è un’eccellente racconto di lotta di classe da un punto di vista originale, anche perché globalizzata: lo scontro della lavoratrice del sesso statunitense è con i nuovi ricchi dell’ex patria del comunismo. Ma quanta sofferenza si nasconde in questa lotta, Baker sa farla uscire fuori con finezza e al momento giusto.

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Bisognerebbe vederla al cinema più spesso, Chiara Mastroianni. Il regista francese Christophe Honoré ha realizzato con la figlia del grande Marcello e di Catherine Deneuve un film delicato e avvolgente, Marcello mio, in cui tutto è famiglia, e che veicola la luminosità della stagione estiva in cui è ambientato. Il cineasta francese, autore di molte belle commedie, perlopiù romantiche e con protagonisti gay o bisessuali – purtroppo in diversi casi rimaste inedite in Italia per motivi oscuri – in questo caso sceglie di omaggiare l’attore con una sorta di spiritoso transfert, mettendo nei panni di Marcello sua figlia Chiara. Per la verità c’è anche in questa opera un personaggio dichiaratamente gay, il giovane militare inglese innamorato (Hugh Skinner), con il quale Chiara fa amicizia: una sorta di invitato speciale in un film in cui i personaggi sono tutti attori, rendendo fin dall’inizio sfumato il confine tra realtà e finzione.

Il film annulla tutti i confini. Poiché abbiamo qui una figlia che si immedesima sempre più con il padre, in una Parigi in cui tutti i colleghi parlano disinvoltamente l’italiano quanto il francese, in cui si passa da Parigi a Roma quasi come se fossero un tutt’uno e in cui i colleghi – Fabrice Luchini, Benjamin Biolay, Nicole Garcia, Melvil Poupaud, oltre alla stessa Deneuve – sembrano tutti dei parenti o degli amici di famiglia: come distinguere le due cose?

Il volto interiorizzato di Chiara Mastroianni conferisce a questa nuvola di transfert congenito un’incertezza introspettiva, che si salda a una sensazione d’inquietudine via via sempre più forte nello spettatore: i lineamenti e soprattutto lo sguardo della figlia e del padre si (con)fondono.

Ma dopo un passaggio un po’ trash e un po’ delicato, grazie anche all’apparizione di Stefania Sandrelli, in quella televisione che Marcello Mastroianni aveva contribuito a satireggiare insieme a Giulietta Masina in Ginger e Fred di Federico Fellini, arriva un grande momento di cinema. Succede quando Chiara, vestita come il padre in , richiama lo storico finale sulla spiaggia di La dolce vita. Preceduto da una canzone interpretata da Deneuve, delicata, semplice e con una vena di malinconia, vicina alle grandi canzoni francesi degli anni sessanta e settanta, alla Françoise Hardy o Barbara.

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Molto applaudito dal pubblico, Parthenope di Paolo Sorrentino è uno dei molti film di questo Concorso prigionieri dell’immagine che si fa pura estetica, come per esempio Kinds of kindness di Yorgos Lanthimos, e in parte Emilia Pérez di Audiard. Cronenberg, con The shrouds, sembra legare questa constatazione, con ironia discreta, a una civiltà umana giunta alla fine.

Strano paradosso, Parthenope è coprodotto, come le opere di Audiard e Cronenberg, dalla Saint Laurent productions, già partner del festival. Questo mentre nelle sezioni parallele è un florilegio di film eccezionali, dalla costruzione estetica ben più sobria e controllata.

In ogni caso, il racconto che Sorrentino fa di una donna – da ragazza (Celeste Dalla Porta) negli anni cinquanta fino alla vecchiaia (Stefania Sandrelli) nell’Italia di oggi, incarnazione della stratificazione temporale di Napoli (il titolo non indicherebbe tanto la sirena del mito quanto l’antico nome della città) – forse fa peggio in termini di sceneggiatura e dialoghi.

Il carosello di battute, che dall’inizio alla fine segnano l’evoluzione più che affettuosa tra il dotto professore e la studente che prenderà il suo posto, anche volendo tenere conto di una sorta di autoironia, è di un’inconsistenza tale che sembrano uscite da un Bagaglino che gioca a essere qualcosa di intellettuale. Tutta la scrittura è segnata da quest’assenza di profondità, così come la fotografia, pubblicitaria, e in parte la regia, a cominciare dai ralenti. La quale però compensa con incredibili inquadrature e movimenti di macchina sul mare o nella chiesa, che fanno sognare un altro film.

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