11 giugno 2015 18:34

Dopo le elezioni del 7 giugno, la cosa che interessa di più ai turchi è sapere se finalmente avranno il paese pienamente democratico e pluralista che molti di loro desiderano. Il ridimensionamento del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) del presidente Recep Tayyip Erdoğan alimenta questa speranza, anche se tradurla in realtà sarà un compito difficile. Ma per tutti gli altri, la vera domanda è se la Turchia smetterà di sostenere i jihadisti che stanno per conquistare la Siria.

In confronto ai tagliatori di teste dello Stato islamico e all’appena meno estremista Fronte al nusra che oggi dominano il fronte che combatte contro il governo di Bashar al Assad, Erdoğan il “sultano”, come lo chiamano i suoi sostenitori, è un islamista molto moderato. Ma il suo sostegno a queste due formazioni è la principale ragione dei loro recenti successi militari.

La Turchia ha un confine di ottocento chilometri con la Siria. Per quattro anni, il governo di Erdoğan ha lasciato che attraverso di esso transitassero armi, equipaggiamenti e reclute straniere destinate ai jihadisti siriani. Quando lo scorso marzo, dopo tre anni di tentativi, il Fronte al nusra si è impadronito della maggior parte di una provincia d’importanza strategica come quella di Idlib, Damasco ha dichiarato che una delle principali ragioni di questa perdita è stato il disturbo delle telecomunicazioni dell’esercito siriano operato dalla Turchia.

A marzo, secondo alcuni servizi del network Al Jazeera, che sostiene i ribelli, Erdoğan avrebbe perfino stretto un patto con l’Arabia Saudita per coordinare l’assistenza ai ribelli siriani, la maggior parte dei quali passa attraverso la Turchia. Ma tutto questo potrebbe cambiare se il partito di Erdoğan non sarà in grado di formare un governo che sostenga la sua politica. E alcuni segnali suggeriscono che non ce la farà.

Il piccolo Putin

Il tema principale delle elezioni turche non era la politica di Erdoğan in Siria, ma la sua ambizione di diventare un piccolo Putin capace di dominare la Turchia per molti anni. Per questo ha rinunciato al ruolo di primo ministro e nel 2014 si è fatto eleggere presidente, una carica cerimoniale e relativamente priva di potere decisionale. Ma la sua vera intenzione era trasformare la presidenza nel centro del potere politico.

Per trasformare la Turchia in un sistema presidenziale bisogna modificare la costituzione, ma per farlo serve una maggioranza dei tre quinti dei 550 seggi del parlamento. Dal 2002 l’Akp ha vinto tre elezioni consecutive con una maggioranza sempre più alta, e per questo Erdoğan era sicuro di riuscirci. Ma si sbagliava.

Gli elettori turchi non gli hanno dato neanche la maggioranza semplice dei seggi in parlamento. Troppe persone hanno voltato le spalle a quest’uomo sempre arrabbiato e violento, che attacca i suoi oppositori politici definendoli “terroristi, emarginati, gay e atei” e che adesso voleva consolidare la sua posizione d’inattaccabile “sultano” della Turchia.

All’inizio della sua carriera politica Erdoğan era un riformatore che si era posto il legittimo obiettivo di mettere fine all’ostilità dello stato turco nei confronti dei più religiosi dei suoi cittadini, in grande maggioranza musulmani. Era un residuo degli anni venti, quando Mustafa Kemal Atatürk cercava di costruire uno stato moderno e laico scontrandosi con l’opposizione dei conservatori religiosi, ma non aveva più motivo di esistere in una democrazia del ventunesimo secolo.

I mezzi d’informazione turchi, un tempo relativamente liberi, hanno subìto così tanti attacchi che nel 2012 c’erano più giornalisti in prigione in Turchia che in qualsiasi altro paese del mondo

Erdoğan ha ridimensionato il potere dell’esercito, che aveva compiuto diversi colpi di stato con il presunto obiettivo di difendere lo stato “laico”. Quei turchi profondamente conservatori e religiosi che si erano sentiti esclusi da questo genere di stato lo avevano premiato votandolo per tre elezioni consecutive. Ma Erdoğan ha cominciato a sentirsi sicuro della sua posizione e ha smesso di preoccuparsi di rispettare le idee di quella metà della popolazione, più giovane e perlopiù urbanizzata, i cui valori sono progressisti e secolari.

I mezzi d’informazione turchi, un tempo relativamente liberi, hanno subìto così tanti attacchi che nel 2012 c’erano più giornalisti in prigione in Turchia che in qualsiasi altro paese del mondo. La risposta del governo alle proteste dei cittadini è diventata sempre più violenta, e la determinazione di Erdoğan nel concentrare tutto il potere nelle proprie mani è diventata sempre più chiara.

Alle ultime elezioni l’Akp ha perso più di un quinto dei suoi voti. Questi elettori non hanno abbandonato la loro religione: semplicemente condividevano ancora l’obiettivo originale del partito, cioè una Turchia democratica e in grado di rispettare i diritti di tutti (compresi i loro). La maggior parte di loro ha votato il nuovo Partito democratico dei popoli (Hdp), che rappresenta i curdi, i gay e le minoranze religiose e sostiene l’uguaglianza di genere.

L’Akp avrà parecchie difficoltà a formare una coalizione con uno dei tre grandi partiti d’opposizione presenti in parlamento, nessuno dei quali appoggia il sostegno del governo ai jihadisti siriani. Avrà 45 giorni per cercare di formare un governo, e se non ci riuscirà probabilmente si terranno nuove elezioni entro la fine dell’estate.

È poco probabile che l’Akp ottenga un risultato migliore: dopo che l’illusione dell’invincibilità è andata in frantumi, è molto difficile ricostruirla. Quel che verrà dopo potrebbe essere un governo di coalizione formato da partiti d’opposizione, che fanno fatica a mettersi d’accordo su quasi tutto, ma che non condividono la passione di Erdoğan per il gruppo Stato islamico e i suoi amici. Se il governo siriano riuscirà a tenere duro fino alla fine dell’estate, forse ha ancora qualche possibilità di sopravvivere.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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