26 aprile 2018 11:17

Cosa vuole Kim Jong-un? Una cosa: sicurezza. Non vuole conquistare il mondo. Non sarebbe pratico: solo un abitante del mondo su trecento è nordcoreano. Non vuole neppure conquistare la Corea del Sud. È due volte più popolosa della Corea del Nord e dieci volte più ricca: se si eliminasse il confine, il regime di Kim crollerebbe nel giro di pochi mesi. E sicuramente non vuole attaccare gli Stati Uniti.

Re Kim terzo (come lo avremmo chiamato un paio di secoli fa) ha dichiarato la scorsa settimana che la Corea del Nord ha ormai portato a termine il suo sforzo per creare un deterrente nucleare in grado di scongiurare un possibile attacco statunitense. Tornerà quindi al compito di rafforzare la sua economia e la sua prosperità. Metterà anzi “fine ai test nucleari e ai lanci di missili balistici intercontinentali”, e addirittura chiuderà un sito di test bellici nucleari.

Kim si sta preparando ai negoziati con il presidente sudcoreano Moon Jae-in e poi con quello statunitense Donald Trump. Vuole ottenere un accordo, ma da molto tempo teme un attacco statunitense. L’accordo potrebbe effettivamente essere trovato, ma solo se Washington e Seoul riconosceranno che la sua paura è reale.

Il peso della propaganda
Vi racconto una storiella dei tempi della guerra fredda. Mi sono accorto di quanto profondamente fossi stato influenzato dalla propaganda che avevo sentito per tutta la mia giovinezza solo quando ho partecipato alla mia prima esercitazione militare della Nato in Europa in qualità di giornalista. Si trattava del consueto scenario ipotizzato in questo tipo d’esercitazione, con i carri armati russi che avanzavano per conquistare l’Europa occidentale, in numero molto maggiore rispetto alle truppe Nato che non riuscivano ad arginare l’attacco.

Non sapevo che in realtà la Nato non era in minoranza. Aveva quasi il doppio degli abitanti rispetto all’Unione Sovietica e ai suoi alleati, ed era almeno quattro volte più ricca. Aveva semplicemente deciso di avere eserciti più piccoli poiché mantenere dei soldati è molto caro, e preferiva affidarsi alla deterrenza nucleare. Ma non avevo mai messo in dubbio l’effettiva minaccia di un’invasione sovietica dell’Europa occidentale. Nessuno lo aveva fatto.

Poi un giorno, mentre stavo intervistando un importante ufficiale militare britannico, per qualche motivo gli ho rivolto la domanda scontata che non mi ero mai preoccupato di fare prima. Quale scenario ipotizzavano i russi quando effettuavano le loro esercitazioni militari?

Noi eravamo i buoni, mi dicevo, e sicuramente i russi si rendevano conto che non avremmo usato il nucleare per attaccarli

Oh, mi rispose con disinvoltura, nei loro scenari immaginano che noi invadiamo la Germania Est, ma che dopo pochi giorni riescano a rovesciare la situazione e a respingerci verso occidente. Se i loro carri armati fossero riusciti ad avanzare lungo il varco di Fulda, aveva continuato, la Nato avrebbe usato armi nucleari per respingerli e tutta la faccenda sarebbe presto diventata uno scontro atomico a tutto campo.

È ovvio. Come avrebbero fatto i russi a dire alle loro truppe che stavano lanciando volontariamente un attacco contro l’occidente, che si sarebbe concluso con una guerra nucleare totale? No. In quanto parte più debole di questo lungo scontro, è probabile che non ci abbiano neppure pensato. Ma non avevo mai considerato il fatto che i russi potessero avere paura della Nato.

Semplicemente non mi era mai venuto in mente che un paese invaso praticamente da chiunque, da Napoleone a Hitler, e che aveva perso almeno venti milioni di persone durante la seconda guerra mondiale, potesse essere ossessionato dal pericolo di essere attaccato da noi. Noi eravamo i buoni, mi dicevo, e sicuramente si rendevano conto che non avremmo mai fatto nulla del genere. Ma ovviamente non era così.

Stessa percezione del pericolo
Forse è vero che eravamo i “buoni” in quello scontro, nel senso che i nostri paesi erano democrazie e i loro delle dittature, ma in termini di percezione della minaccia ed eccesso di reazione le due parti erano identiche. La situazione nella penisola coreana è la stessa, su scala molto ridotta.

La dinastia Kim ha ereditato un paese devastato alla fine della guerra in Corea del 1953. Le sue città erano state rase al suolo e almeno un milione di persone era rimasto ucciso. Le truppe cinesi che avevano aiutato la Corea del Nord se n’erano tornate a casa dopo la guerra, ma quelle statunitensi erano rimaste in Corea del Sud. Inoltre gli statunitensi disponevano di armi nucleari e non avrebbero mai promesso di non usarle. Non c’era inoltre alcun trattato di pace, solo un armistizio.

I Kim hanno costruito un enorme esercito come parziale e insufficiente risposta alle armi nucleari statunitensi, e hanno cominciato a lavorare al loro progetto di armi nucleari appena l’economia l’ha permesso. Tuttavia, questo grande esercito ha creato la percezione di una minaccia, negli Stati Uniti e in Corea del Sud, acuta e reale quanto le paure della stessa Corea del Nord.

E quindi come si fa a negoziare una via d’uscita da questo scontro futile e pericoloso? Pyongyang non rinuncerà al deterrente nucleare che ha così tanto faticato a costruire: non si fida abbastanza. Ma Kim sostiene di volerlo lasciare al suo attuale livello di tecnologia primitiva e ridotta. Nella sua forma attuale gli Stati Uniti non hanno molto da temere.

Meglio sarebbe concentrarsi su un trattato di pace che dia finalmente alla Corea del Nord un senso di sicurezza. In cambio si potrebbe chiedere a Pyongyang di riportare il suo assurdamente sovradimensionato esercito a un numero di effettivi pari a quello della Corea del Sud. E promettere che una volta fatti questi tagli, le truppe statunitensi di stanza in Corea del Sud se ne torneranno a casa.

Potrebbe funzionare. Sicuramente vale la pena provare.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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