Presto o tardi la storia presenta sempre il suo conto, spesso si tratta di un conto salato e talvolta non privo di una qualche ironia. Dev’essere infatti per l’ironia della storia se le elezioni europee del 26 maggio, le prime ad avere per posta in gioco la stessa sopravvivenza dell’Unione europea, sono capitate giusto nel trentennale di quel fatidico crollo del muro di Berlino che dell’Europa decise la riunificazione. E dev’essere per uno sberleffo della storia se la proclamazione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, potente spinta propulsiva per i populismi e i sovranismi europei, è capitata giusto lo stesso giorno del crollo del muro, il 9 novembre, quasi a smentirne, ventisette anni dopo, speranze, illusioni e false prospettive (“Che giorno! Che giorno! La non-democrazia liberale è finita, e io mi sento libero dalla correttezza politica”, così Viktor Orbán commentò il risultato delle presidenziali americane). Ma nella storia come nei sogni, ce l’ha insegnato Freud, le coincidenze dei numeri non sono mai casuali: ci mettono sulla strada di tracce perdute o rimosse, consentendoci di ricostruire in modo più attendibile la genealogia di un presente smemorato.

Nel presente c’è un’Unione europea che il 26 maggio scorso ha tirato un respiro di sollievo respingendo la minaccia sovranpopulista, ma che resta lacerata da faglie profonde – territoriali, economiche, sociali, politiche, culturali – rispetto alle quali il dover essere unitario rischia di diventare sempre meno seduttivo ed efficace. Da dove nascono queste faglie, e come si riparano? Priva com’è diventata di spessore storico, la politica non dà risposte, o le sbaglia. Di fronte alla faglia economica fra nord e sud spalancatasi con la crisi del 2008 la Ue ha risposto con la politica dell’austerità e la disciplina del debito, e con la favola delle formiche e delle cicale, aggravandola. Di fronte alla faglia politica fra est e ovest, disegnata dagli esperimenti di “democrazia illiberale” in Ungheria e in Polonia, dalle transizioni democratiche incompiute in Serbia e in Ucraina, dai regimi neoautoritari in Bielorussia e in Azerbaigian, la Ue ha glissato contando sulla solidità del modello liberaldemocratico occidentale contro lo spettro sovranista, con l’unico risultato, anche in questo caso, di aggravare la faglia e di riprodurla all’interno dei paesi occidentali, prima di tutto nel sempre solerte laboratorio italiano. Di fronte infine alla terza faglia, la crisi migratoria che destabilizza in modo permanente i già labili confini del continente, l’Unione continua a non rispondere nulla, avallando politiche sempre più securitarie e lasciando che mille recinzioni fioriscano, in plateale contraddizione con l’immagine dello “spazio senza confini” e della “società aperta” che avrebbe dovuto caratterizzare l’Europa.

Tanto basta, o dovrebbe, per concludere che la riproposizione ostinata del ricettario neoliberale ha prodotto e riproduce la crisi economica, politica e demografica del vecchio continente: e che dunque bisogna decisamente cambiare strada, riavvolgendo all’indietro il nastro della costruzione europea e riconoscendone errori, illusioni, fraintendimenti, paradossi. Il trentennale del 1989 sarebbe l’occasione giusta per farlo, a patto di uscire finalmente dalle narrative unilineari e trionfali degli eventi di quell’anno che hanno costituito finora il nocciolo duro dell’ideologia europeista mainstream. Senza il muro. Le due Europe dopo il crollo del comunismo, una compatta raccolta di saggi del politologo Jacques Rupnik pubblicata con tempismo da Donzelli, ci mette sulla pista giusta per questa riconsiderazione dell’ultimo trentennio. Praghese, consigliere di Vàclav Havel negli anni novanta, componente della commissione internazionale per i Balcani e di quella per il Kosovo, docente in varie università europee e americane, Rupnik incrocia lo sguardo sulle vicende dell’Europa dell’est, del centro e dell’ovest dopo le “rivoluzioni di velluto” del 1989 e l’allargamento a est dell’Unione europea del 2004-2007, ricostruendo un puzzle politico, sociale e culturale del continente più completo e più complesso di quello a cui siamo abituati. Ma il movente del libro è politico, e si racchiude in due domande sull’oggi.

Due domande sull’oggi
La prima: l’ascesa di movimenti e governi populisti, sovranisti e antieuropei, dichiaratamente illiberali o evidentemente neoautoritari, segnala un problema dell’Europa centrorientale, riconducibile magari all’eredità del regime sovietico, o annuncia piuttosto una tendenza transeuropea e transatlantica delle postdemocrazie contemporanee, tanto più se mettiamo nel conto il governo gialloverde italiano, la Brexit e la presidenza Trump negli Stati Uniti? Si tratta insomma di un ritorno dell’oriente o di una deriva dell’occidente? La seconda: assistiamo, oggi e non da oggi, al rovesciamento di tutte le promesse e le premesse dell’ottantanove nel loro contrario: dall’abbattimento del muro alla costruzione delle barriere contro i migranti, dal trionfo alla crisi della democrazia liberale, dalla riunificazione dell’Europa alle nuove divisioni che la solcano, dal trionfo dell’economia di mercato alla catastrofe finanziaria del 2008, dalla società aperta ai ripiegamenti identitari, dal progetto sovranazionale europeo ai nazionalismi, dai movimenti del dissenso in nome dei diritti umani alle leggi contro le ong, dal mito della governance globale agli arroccamenti sovranisti. Come interpretare questo rovesciamento? Si è trattato di promesse tradite o di premesse sbagliate, o di tutt’e due?

Entrambe queste domande rinviano ai processi innescati dalla “rivoluzione” dell’ottantanove, tuttora controversa nelle definizioni che ne vengono date: implosione del sistema sovietico secondo alcuni; pratica di disobbedienza civile non violenta secondo altri; rivoluzione “recuperante”, priva di idee-forza nuove e tesa solo all’imitazione dell’occidente, secondo Habermas; ma senz’altro, per Rupnik, rivoluzione democratica antitotalitaria, l’ultima a rendere l’Europa scenario di un evento mondiale, con ripercussioni in altri contesti – le primavere arabe di vent’anni dopo – e con effetti decisivi sull’assetto geopolitico del pianeta.

Un poliziotto ungherese pattuglia la recinzione lungo il confine tra Serbia e Ungheria, vicino a Röszke, il 17 febbraio 2016. (Akos Stiller, Bloomberg via Getty Images)

Di quell’anno convulso, sorprendente e indimenticabile si può rivedere, nelle pagine del libro, tutto il film: gli eventi (Lipsia, Dresda, Varsavia, Praga, Budapest, Berlino, Bucarest); i precedenti (Solidarność 1980, Praga 1968, Budapest 1956, senza dimenticare gli scioperi operai del 1976 a Radom e Ursus e del 1970 sulla costa baltica); la temporalità accelerata e l’effetto domino (“Polonia dieci anni, Ungheria dieci mesi, Ddr dieci settimane, Cecoslovacchia dieci giorni, Romania dieci ore, Albania dieci minuti…”). E ovviamente i protagonisti – Havel, Wałęsa, Gorbačëv –, i comprimari – Kohl, Reagan, Thatcher, e sopra tutti Giovanni Paolo II – e le rispettive strategie. La ricostruzione non indulge alla retorica della spettacolarizzazione né a quella dell’imprevedibilità dell’evento: restituisce piuttosto un 1989-processo, incubato nella lunga e profonda crisi del sistema sovietico e consapevolmente accelerato dal riformismo di Gorbačëv, che alla fine non riesce però a contenerne gli effetti dirompenti sull’esistenza stessa dell’Unione Sovietica. Inizialmente pilotata da Gorbačëv ma anche da Reagan, la fine della guerra fredda coinciderà con la fine del socialismo reale, con la ratifica della sua irriformabilità, con il trionfo del modello occidentale, nonché con la vittoria della soluzione autoritaria di Deng Xiaoping alla crisi del comunismo su quella riformista del leader sovietico.

Qui però non mi interessa tanto sostare sul film, che le celebrazioni del trentennale ci faranno rivedere più e più volte, quanto sul seguito cui, come in ogni buon film, la fine dà inizio. Che cosa comincia in Europa, finito il 1989? L’Europa centrale fu solo protagonista o anche e soprattutto posta in gioco, fra le potenze che posero fine alla guerra fredda, della rivoluzione del 1989? Se quella rivoluzione reinventò il mito del popolo sovrano che prende in mano il proprio destino, che ne è di quel popolo e di quella sovranità nei populismi sovranisti di oggi? Se la spinta a quella rivoluzione venne da una generazione di giovani e di intellettuali radicale, aperta, ironica, “non contro il regime ma già oltre”, che ne è stato di quella generazione e del dissenso cui diede voce? Infine, se gli oggetti del desiderio di quella rivoluzione erano la democrazia e il “ritorno all’Europa”, che ne è oggi della democrazia in Europa, e dell’Europa?

Premesse ambigue, promesse tradite
Il percorso biografico e politico di Orbán, cresciuto nell’ultima generazione del dissenso liberale ungherese per approdare nel 2016 alla formulazione della “democrazia illiberale”, o quello di Jarosław Kaczyński, formatosi dentro Solidarność ed ex consigliere di Wałęsa, forniscono già ampi indizi per rispondere. Ma Rupnik articola la sua analisi su una dimensione più vasta, all’incrocio, come anticipavo sopra, fra ambiguità delle premesse delle rivoluzioni dell’Europa dell’est e tradimento delle promesse dell’Europa dell’ovest.

Alle ambiguità e all’ingenuità delle premesse del dissenso vanno ascritte l’infatuazione acritica per il modello liberaldemocratico occidentale e l’adesione altrettanto acritica al “Washington consensus” neoliberista; l’enfasi sui diritti umani, efficacemente branditi contro il totalitarismo sovietico ma in seguito usati come fonte di legittimazione delle “guerre umanitarie” degli anni novanta e dell’intervento americano in Iraq e in Afghanistan, circostanze nelle quali i paesi dell’Europa centrale sono stati infatti più vicini agli Stati Uniti che alla Ue; una concezione della sovranità popolare intrecciata con il patriottismo nazionalista contro l’Urss, e dunque esposta ab origine alla curvatura populista-sovranista di oggi. Dall’altro lato ci sono le promesse tradite dell’occidente: l’offerta di una democrazia sempre più povera, ridotta a rito elettorale, erosa dalla crisi della rappresentanza, dalla corruzione, dalla tirannia dell’immediatezza dei mercati e dei mezzi di informazione; il mito di una forma postnazionale dell’Ue – peraltro mai tradotto in architettura istituzionale – privo di attrattiva sul sentimento nazionalista dell’Europa centrale; un allargamento dell’Unione ai paesi dell’est molto più simile a un’annessione che al “ritorno all’Europa” da loro vagheggiato dopo il “sequestro” sovietico, e drogato dalla comune adesione, a ovest e a est, alla religione del mercato.

Oggi l’Europa è unificata, oltre che da una moneta controversa, solo dalla crisi democratica

All’esito di queste due parabole c’è stata una costruzione europea carica di malintesi, e ulteriormente compromessa dalla crisi economica e dalla crisi migratoria, quest’ultima percepita dai paesi dell’est come uno schiaffo del multiculturalismo occidentale e postcoloniale alla loro illusione di contribuire alla rifondazione dell’identità continentale con la riscoperta delle proprie identità nazionali. Il processo di unificazione dell’Europa, che guardava ai paesi di Visegrád come esempi di transizione democratica e parve coronato nel 2014 dall’elezione del primo ministro polacco Donald Tusk a presidente del Consiglio europeo, si è così risolto in un generatore di nuove fratture. Oggi l’Europa è unificata, oltre che da una moneta controversa, solo dalla crisi democratica: nella quale però, questo è il punto, le “democrature” dei paesi di Visegrád non appaiono tanto il residuo di un mondo che fu quanto l’avanguardia di un mondo che viene.

Gli ingredienti della “democrazia illiberale” di Orbán – rifiuto dello stato di diritto in nome di una concezione assoluta della sovranità popolare; controllo dei media e della magistratura; politiche identitarie e nazionalistiche; guerre culturali a difesa dei valori tradizionali (dio, patria e famiglia) contro il “nuovo totalitarismo” dei diritti, si diffondono a macchia d’olio in tutti i populismi europei, come sappiamo bene e non da oggi dal laboratorio italiano, e non solo in quelli europei, come sappiamo dagli Stati Uniti di Trump. E si insinuano anche laddove i populismi non si aggrumano e non governano, nelle prassi di postdemocrazie sempre più svuotate e de-costituzionalizzate, e nel senso comune di società sempre più attratte da uomini forti e soluzioni semplici.

Trent’anni dopo il crollo del muro, questa la conclusione di Rupnik, il ciclo aperto dal 1989 si è compiuto storicamente e va chiuso politicamente con una decisione di discontinuità. Il trionfo dell’occidente decretato alla fine della guerra fredda ha coinciso in realtà con l’inizio del suo declino a fronte dell’emergere della potenza cinese. Il “nuovo ordine mondiale” che gli Stati Uniti hanno cercato di imporre esportando la democrazia con le armi ha generato guerre, fondamentalismi, terrorismo internazionale e migrazioni di massa. La democrazia, rappresentata trent’anni fa come il destino politico spontaneo o forzoso di tutto il pianeta, si ritrova oggi in una crisi di forma, sostanza e legittimazione senza precedenti, in primo luogo nei paesi che ne hanno più lunga esperienza. La religione del mercato si è infranta su una crisi economico-finanziaria senza precedenti. La globalizzazione ha strappato immense masse alla povertà in alcune parti del mondo ma al prezzo di disuguaglianze insostenibili in altre, marginalizzando il ruolo dell’Europa rispetto a quello degli Stati Uniti e della Cina. E l’Europa da laboratorio di un esperimento di unificazione postnazionale è diventata preda di spinte disgregatrici nazionaliste interne, nonché delle mire distruttive esterne degli Stati Uniti di Trump e della Russia di Putin.

C’è un modo per uscirne? Non vanno sottovalutati i fattori che tutt’ora assicurano la tenuta dell’Unione, non ultime le divisioni interne al gruppo di Visegrád, nonché il fatto che paradossalmente proprio l’opinione pubblica di quei paesi vede nell’Europa l’unico anticorpo alla deriva autoritaria, “l’ultima trama protettiva contro i propri demoni”. Per quanto malata, la democrazia ha ancora le sue carte da giocare contro i rigurgiti di totalitarismo, a est e a ovest. Ma a condizione, secondo Rupnik, di “ricongiungere democrazia e liberalismo, il che implica distinguere fra liberalismo politico e liberismo economico”.

C’è qui l’intuizione e insieme il limite dell’analisi dell’autore, che giustamente attribuisce alla “confusione, e di fatto collusione, fra liberalismo e liberismo” i guasti sociali e politici e gli equivoci culturali del ciclo post 1989, ma si illude – come molti liberaldemocratici – che questa confusione possa essere dissipata e che questa collusione possa essere interrotta sbarazzandosi del liberismo economico e ripristinando la norma e la normalità liberaldemocratica. Il neoliberalismo che domina il mondo da quarant’anni e che ha deciso la piegatura e le sorti del 1989 è qualcosa di più di una sovrapposizione o di una confusione fra liberismo economico e liberalismo politico: è una forma di razionalità che piega al codice economico del mercato e della concorrenza l’intero edificio della convivenza, dalla base antropologica al vertice istituzionale.

La democrazia liberale e i suoi soggetti tradizionali – l’individuo razionale, il dèmos forgiato dalla partecipazione e da valori condivisi, i partiti come sede di pratica regolata del conflitto, i poteri divisi come garanzia dello stato di diritto – ne escono modificati non contingentemente ma strutturalmente. Le nuove destre populiste e sovraniste l’hanno capito perfettamente, con la loro critica dell’individualismo, la loro “reinvenzione” del popolo sovrano, il loro esplicito disprezzo per lo stato di diritto: e viaggiano infatti spediti sulla strada della democrazia illiberale, come ha confermato Vladimir Putin in un’intervista al Financial Times di pochi giorni fa. È dal campo della sinistra che manca una proposta all’altezza dei tempi. Se il neoliberalismo è stata l’ultima ideologia egemonica del novecento, per uscire dalla sua crisi ci vuole un’invenzione controegemonica di pari potenza, che ancora non si vede all’orizzonte.

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