12 maggio 2012 11:06

Domenica scorsa mi trovavo con mia moglie e un gruppo di amici in un ristorante non lontano da casa mia. È un posto carino, si mangia bene, e quella sera c’era anche la musica dal vivo. Passiamo una serata allegra e, siccome siamo tutti un po’ stanchi, andiamo via non troppo tardi.

Gli amici che sono rimasti nel ristorante dopo cena a chiacchierare e a ballare mi hanno raccontato quello che è successo dopo.

A un certo punto entra di corsa una donna piccolina e magra, già nota alla proprietaria del ristorante perché abita lì vicino e passa ogni tanto a chiedere un po’ di farina o zucchero che lei non le fa pagare, perché sa che la donna, che ha due figli piccoli, fatica ad arrivare a fine mese.

È terrorizzata. Chiede di essere nascosta nella cucina. Dice che il compagno la vuole ammazzare. Appena arriva in cucina sviene, o forse fa finta di svenire. Il compagno non tarda ad irrompere; è un uomo enorme, palestrato. Va dritto in cucina. Come vede la compagna per terra, la afferra per i cappelli e fa per trascinarla via.

Fortunatamente alcuni clienti riescono a fermarlo, non tanto fisicamente (non era il caso, mi dicono, tant’era grosso e alterato, pronto a tutto) ma dicendogli che la signora ha bisogno di un po’ di aria. Qualcuno intanto ha chiamato di nascosto i carabinieri, e anche un’ambulanza.

La proprietaria del ristorante temporeggia, dicendo all’uomo di aspettare a portare via la signora perché le sta preparando un po’ di acqua e zucchero. Lui non insiste; capisce, forse, che non è il caso, visto il numero di presenti. Si limita a mettersi a cavalcioni sulla sua compagna inerte, quasi a coprirla, e comincia a sussurrarle delle parole nell’orecchio, di cui si capisce solo l’esortazione “pensa ai tuoi figli”.

Dopo un po’ – forse a questo punto insospettito da certi sguardi – si alza, sollevando la sua compagna di peso (non ci vuole molto, è talmente piccolina) e si dirige verso l’uscita. Uno dei clienti sta tenendo la signora per mano e non molla la presa: dunque escono in tre. Arrivati al bordo del parcheggio, lì dove cominciano gli ulivi e finisce la zona illuminata, l’uomo si rivolge verso l’intruso e gli intima di lasciare la presa.

Proprio in questo momento la sua compagna, finora inerte, fa un balzo, si divincola, e comincia a correre verso la strada. E come in un film, prima che il compagno la possa raggiungere, arrivano i carabinieri.

Lei viene portata subito in ospedale. Lui non viene arrestato – anche perché la signora non ha voluto sporgere denuncia, e nel ristorante è stato attento a non usare violenza fisica. Quando i carabinieri tornano al ristorante per intervistare i testimoni, raccontano che la signora “ha cambiato versione” e “sembrava ubriaca”. Ma forse era solo una strategia professionale, per provocare una reazione. Le forze dell’ordine devono fare gli scettici per professione.

Comunque sia, il giorno dopo, il compagno della signora entra nell’ospedale dove lei si trova sotto osservazione. Si avvicina al letto e le sfera un pugno in faccia, rompendole il setto nasale.

Non posso dirvi come è andata a finire la vicenda perché non è ancora finita. Come molti casi simili, è probabile che si trascinerà avanti per anni. Speriamo che finisca bene.

Quello che mi irrita e mi intristisce è il senso di impotenza che sento, e che quelli che mi hanno raccontato la vicenda hanno sentito, davanti a questa violenza. È raro che episodi del genere irrompano nello spazio pubblico; di solito si svolgono all’interno le mura domestiche. Ma, in questo caso, non è bastato a evitare altre violenze.

Una donna uccisa ogni due giorni

Queste violenze non si limitano a insulti, sevizie fisiche e mentali, pugni in faccia. Secondo l’associazione D.i.Re, dall’inizio dell’anno alla fine di aprile, 56 donne italiane sono state uccise dai propri compagni. Quasi una ogni due giorni. Quando leggete questo post, potete aggiornare il numero da soli, tirando due somme. Uno dei casi più recenti che ha avuto maggior risalto, quello della studentessa catanese Stefania Noce, non figura neanche fra le 56: Stefania è stata uccisa il 27 dicembre del 2011. In questo ambito, gli episodi si susseguono rapidamente.

Forse non c’è neanche bisogno di dirlo, perché chi legge capisce che non sto parlando da cittadino inglese in Italia e non sto rimproverando nessuno, ma le cose non vanno molto meglio in Gran Bretagna. Dati recenti sono difficili da reperire, ma l’associazione Women’s aid calcola che una media di due donne britanniche a settimana vengono uccise dal proprio partner o ex partner.

E, in molti casi, neanche la risposta delle istituzioni sembra essere migliore. Il Guardian cita perfino il caso di un poliziotto inglese che indagava su un caso di molestie, pedinamento e minacce da parte dell’ex compagno di una donna polacca. Il poliziotto finisce per avere una relazione con lei – la persona che avrebbe dovuto aiutare. Quando l’ex compagno della donna scopre la relazione, la uccide, davanti alla figlia di tre anni.

Siccome volevo capire qualcosa di più sulla prevenzione e la sensibilizzazione delle istituzioni sul territorio, sono andato a parlare con Assunta Bigelli, presidente dell’Associazione amica donna di Montepulciano, uno dei tanti centri di ascolto che esistono in Italia per prevenire la violenza di genere e per tutelarne le vittime.

Solo in Toscana, i 12 centri antiviolenza riuniti nella rete Tosca hanno assistito 1.933 donne nel 2010 e hanno ospitato 133 donne e minori nello loro strutture di accoglienza. A livello nazionale, circa 14.000 donne all’anno si rivolgono ai centri antiviolenza. Il 71 per cento è di nazionalità italiana; non è vero infatti, come a volte si sente ripetere, che è soprattutto un problema che riguarda gli stranieri.

Assunta Bigelli è una donna seria, gentile. E volontaria, come quasi tutte le donne che lavorano in queste associazioni. Il suo vero lavoro è organizzare corsi di cucina in un albergo di lusso vicino a Montepulciano.

Mi parla di attività concrete, come le riunioni che l’associazione fa ogni due o tre mesi con polizia, carabinieri, vigili urbani e medici del pronto soccorso. Questi ultimi sono importantissimi, mi spiega. Non solo perché sono spesso i primi a individuare i casi di violenza, ma soprattutto perché se il referto di una donna che si presenta al pronto soccorso supera i 20 giorni, il caso diventa automaticamente d’ufficio.

Mi dice che quando una donna denuncia un caso di violenza si deve fare attenzione a non psicologizzarla, altrimenti non si fa altro che rimandare il problema a lei (e se nella donna emerge una mancanza di autostima, è quasi sempre la conseguenza di anni di insulti e violenze subite). Mi dice che è importantissimo rispettare le scelte della donna mentre la si accompagna a uscire dal ciclo della violenza, ma è altrettanto importante capire suoi i bisogni in quel particolare momento. Sono fondamentali anche alcuni accorgimenti che potrebbero sembrare banali. Tenere sempre con sè un cellulare è uno di questi.

Bigelli mi parla anche dell’importanza delle parole. Le parole che i carabinieri scrivono sui verbali, per esempio. Non devono imporre delle formule; devono ascoltare, e scrivere quello che dice la donna. Le parole scelte dalle forze dell’ordine o dai testimoni per ridimensionare e far rientrare la violenza domestica nella normalità possono equivalere a una condanna di morte: frasi fatte come “una semplice lite” oppure “un affare di famiglia”.

La risposta di mia moglie

Quello che non riesco a capire in tutto questo, però, è perché alcuni uomini facciano queste cose. Perdonate l’ingenuità della domanda, ma quali sono i meccanismi che scattano nella mente di un uomo quando comincia a picchiare e a maltrattare la sua compagna?

Per non fare confusione, mettiamo da parte i casi patologici (compresi quelli, rari ma non inesistenti, di donne che picchiano il compagno). Volendo, possiamo anche non prendere in considerazione gli uomini che diventano violenti solo quando la donna mette fine al rapporto (anche questi sono piuttosto rari – chi è esperto in materia dirà che in questi casi c’è quasi sempre qualche precedente).

Ma prendiamo un uomo “normale” che va al bar a trovare gli amici, magari ha la sua pagina su Facebook, gioca a basket, legge (guai, mi avvisa Bigelli, a pensare che la violenza di genere sia un problema che investe solo i ceti più bassi e le persone meno istruite): un uomo ben inserito nel tessuto sociale, insomma, che poi torna a casa dalla moglie-schiava e la riempie di insulti e botte. Che gli sta passa per la testa?

Un mio amico, psicoanalista di scuola reichiana, mi dice che questi uomini odiano le loro madri. Mia moglie dice invece che non bisogna scavare troppo nel subconscio per trovare una spiegazione. Secondo lei, gli uomini si sentono minacciati dalle donne perché le donne sono più intelligenti, più sensibili, più evolute.

Per affrontare la discrepanza tra il modello culturale dell’uomo forte e il sospetto di essere del tutto inutili, alcuni uomini mettono la tuta mimetica e giocano a fare i cacciatori; altri vanno allo stadio e inscenano riti tribali. Altri ancora picchiano la compagna.

Così dice mia moglie, e forse ha ragione. Non ho mai avuto un migliore amico di sesso maschile, e l’idea di stare con un gruppo di altri maschi a fare le cose che di solito i maschi fanno in gruppo mi provoca un certo disagio (ci trovo anche qualcosa di ridicolo). Se i maschi sono quelli che picchiano le mogli, o anche quelli che fanno fatica a distinguere tra l’auto che guidano e quello che hanno tra le gambe, preferisco dissociarmi.

Però so che la risposta giusta al problema è un’altra. È quella di seguire la strada indicata da un’associazione come Maschile plurale che, partendo dal presupposto che “la violenza contro le donne ci riguarda”, cerca di trovare soluzioni al problema senza negare la propria virilità.

La risposta giusta è di essere fieramente maschi così come siamo. E dire: quelli che picchiano le donne non sono degli uomini veri; io sì.

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