Torno sul calcio per fare una confessione. L’altra sera, durante la partita Italia-Inghilterra, ho tifato per l’Italia.

Sono molti anni ormai che quando gioca l’Inghilterra, tifo per l’Inghilterra, e quando gioca l’Italia tifo per l’Italia. L’ultima volta che si presentò il dilemma fu nel luglio del 1990, quando noi e voi (ma forse a questo punto dovrei dire noi e loro) ci siamo affrontati

a Bari nella finale da sempre più sfigata dei Mondiali: quella per il terzo posto, che l’Italia vinse 2 a 1 con i gol di Baggio e Schillaci.

All’epoca tifavo per l’Inghilterra. Nel mio diario di quell’anno (vi ricordate quando ancora tenevamo un diario scritto a mano?) non ho trovato nessun accenno a questa partita, ma mi sono fermato sul seguente appunto scritto dopo la semifinale Germania-Inghilterra: “L’Inghilterra fuori dai Mondiali ai rigori. Strano come il gene del nazionalismo si sia imposto, alla fine, nonostante i miei tentativi di tifare per il Camerun oppure per l’Irlanda”.

La cosa curiosa è che ho acceso la tv, questa volta, fermamente convinto che avrei tifato per l’Inghilterra, ma fin dall’inizio mi sono trovato ad appoggiare ogni attacco italiano e a soffrire per le (poche) risposte inglesi. Non penso di essere stato influenzato dal fatto di aver visto la partita in Italia, sulla Rai, e nemmeno dal fatto che noi (voi?) eravamo assenti per lunghi periodi mentre voi (noi?) giocavate con passione e grinta (la prossima volta, per rendere l’esperimento più scientifico, dovrei vedere Italia-Inghilterra in un pub londinese).

Il tifo sportivo è un buon indice di identità culturale? Non lo so. Ma essendo un istinto solo parzialmente sotto il nostro controllo, forse lo è. Le persone che incontro a volte mi chiedono se dopo quasi trent’anni in Italia mi sento più inglese o italiano. A seconda di come mi gira rispondo o che mi sento europeo o che sono un inglese italianizzato. Mi chiedono se penso in italiano o in inglese: rispondo che dipende molto da se in quel momento sto scrivendo o parlando in italiano o in inglese. E i sogni? Boh, i pochi sogni che mi ricordo dopo essermi svegliato non sono ricchi di dialoghi. Sono The artist, ma con la regia di un bambino distratto di cinque anni.

In un post del suo blog Distanti saluti, Giovanni Fontana scrive: “Il punto è che è proprio scemo avere un’alta stima d’una cosa solo perché c’è capitata per caso. Sono fiero del mio codice fiscale. Sono orgoglioso di portare il 42 di piede. Fa ridere, eh? Le persone che dicono d’essere orgogliose – o fiere – d’essere nate in un posto, direbbero lo stesso se fossero nate in un altro”.

Ma il numero di scarpe che porti di solito non incide molto sulla tua vita. E a voler essere puntiglioso, neanche il posto dove sei nato, se i tuoi genitori si trovavano lì per caso e per poco tempo. È tutto quello che viene dopo la nascità che plasma e colora quella cosa che chiamiamo identità culturale: la lingua che impari, la religione (o la mancanza di religione) che ti viene imposta, la scuola che frequenti, la storia (e le storie) che ti raccontano, l’architettura che ti circonda, i piatti che mangi, la musica che ti fa da colonna sonora, insieme a tante altre cose.

Il passaggio dall’identità culturale a quella nazionale è breve e a volte troppo facile. Ma come ho scoperto (non per la prima volta) guardando Italia-Inghilterra, sono due insiemi che si sovrappongono senza mai coincidere del tutto. Sono ancora inglese, non tanto per il passaporto quanto perché so fare i mince pies, so come pronunciare Greenwich e posso recitare a memoria alcune scene dei Monty Python. Però sono un inglese che tifa per l’Italia. O meglio, per l’Italia e il Bristol City. Certe cose nella vita sono sacre e irremovibili.

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