01 settembre 2017 16:51

Downsizing significa letteralmente rimpicciolire ma in inglese è usato come eufemismo riferito al ridimensionamento di un’azienda, che spesso avviene solo tagliando posti di lavoro. Downsizing è anche il titolo del nuovo film di Alexander Payne, il regista di Sideways e Nebraska, che ha aperto la 74ª edizione di un festival dal nome ostentatamente upsized: la Mostra internazionale d’arte cinematografica La Biennale di Venezia.

Non tira certo aria di ridimensionamento in un evento che ha aggiunto, unico per ora tra i festival importanti, un intero concorso dedicato ai film girati (o confezionati) usando la realtà virtuale. È un settore che attira molti talenti che non vengono dal mondo del cinema, ma fra i 22 titoli in concorso ci sono anche due registi affermati, Tsai Ming-Liang e Laurie Anderson. La sezione VR (virtual reality, appunto) è ospitata sull’isola del Lazzaretto Vecchio, in cui la Serenissima, nel 1423, fondò un ospedale per tenere gli appestati in quarantena. Qualcuno nell’organizzazione deve avere un bel senso dell’umorismo.

In cartellone
I titoli più attesi sono The shape of water di Guillermo del Toro, Suburbicon di George Clooney, che vanta una sceneggiatura dei fratelli Coen, il documentario sulla crisi dei migranti, Human flow, dell’artista cinese Ai Weiwei, Mektoub, my love: canto uno di Abdel Kechiche (il regista della Vita di Adele), Mother! di Daren Aronofsky con una Jennifer Lawrence diva horror, il documentario di Frederick Wiseman sulla New York public library della durata di 3 ore e 20 minuti (non vedo l’ora: nei film di Wiseman il tempo vola via troppo veloce come nella vita), nonché due film italiani girati rispettivamente in francese e inglese: Hannah di Andrea Pallaoro, e The leisure seeker di Paolo Virzì. Questi due lavori hanno in comune un aspetto piuttosto diffuso quest’anno: attori veterani nei ruoli principali; Charlotte Rampling per Pallaoro e la coppia Helen Mirren e Donald Sutherland nel film di Virzì.

Matt Damon non può essere ancora considerato un veterano, ma è sicuramente un attore navigato. È diventato il solido uomo qualunque di Hollywood, una star “normale” con cui abbiamo tutti qualcosa in comune, anche quando interpreta l’eroe d’azione Jason Bourne. In Downsizing Matt Damon è Paul Safranek, il terapista occupazionale di una fabbrica di generi alimentare. Sua moglie Auderey (la brava Kristen Wiig) vorrebbe una casa più grande, ma c’è la crisi è la coppia ha già un mutuo impegnativo. Ci sarebbe però un modo di ridurre le spese familiari, anzi, un modo di moltiplicare per circa ottanta volte il valore del loro capitale di 152 mila dollari: il downsizing. Ovvero sottoporsi a una procedura inventata da uno scienziato norvegese, il dottor Asbjornsen, che consiste nel ridurre una persona di circa 1 metro e 80 d’altezza a soli 12,9 centimetri.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Il nobile intento dello studioso scandinavo era quello di ridurre l’impatto ambientale della specie umana, ma non si può brevettare una buona intenzione. Com’era forse prevedibile, il processo di downsizing è diventato invece un prodotto di mercato che prende di mira persone come i Safranek, che vogliono vivere il sogno americano nonostante le restrizioni di un’economia in crisi. Se scegliessero di essere rimpiccioliti, potrebbero permettersi una casa trumpiana al costo di una casa di bambole, risparmierebbero sul cibo, sull’energia e su tutto. No in questo contesto non conviene fare troppe domande pignole sul costo del lavoro. Detto fatto. I Safranek scelgono Leisureland, una specie di minuscola cittadella di lusso protetta da una cupola di cristallo per evitare uccelli e altri predatori di piccoli animali.

La premessa del film è geniale, aperta com’è sia al registro comico che a quello più drammatico (la procedura di downsizing, ricordiamolo, è irreversibile). Nella seconda parte, però, il film vira dalla satira verso la favola sentimentale. In un’America sempre più chiusa in se stessa, il messaggio arriva comunque forte e chiaro: un americano medio, buono ma un po’ tonto, reso piccolo dai valori egoisti e materialisti del suo paese, scopre l’amore, se stesso e il resto del mondo, grazie ad alcuni compagni strambi. Una rifugiata vietnamita che, nonostante l’amputazione di una gamba, si dedica ad aiutare i bisognosi e Dusan, un faccendiere serbo interpretato con gusto da Christoph Waltz. Alla fine, da spettatori, si sorride amaramente proprio come Dusan che quando guarda Paul gli dice: “Sei buono, ma anche un po’ patetico”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it