22 maggio 2018 15:31

Il governo del Movimento 5 stelle (M5s) si vuole distinguere come “governo del cambiamento”, come quello con cui comincia la terza repubblica, innovativo in tutto e per tutto. L’ha dimostrato con l’esteso programma e i suoi contenuti, dal reddito di cittadinanza alla flat tax. Ora si accinge a darci una seconda dimostrazione, con la scelta del premier.

Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno proposto un tecnico, Giuseppe Conte, a Sergio Mattarella. In sé questa scelta non è innovativa: negli ultimi 25 anni alla guida di governi italiani ci sono stati tecnici come Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Mario Monti. L’aspetto più innovativo è l’aver optato per un tecnico che è un illustre sconosciuto. Ciampi e Dini prima di accedere al governo avevano ricoperto ruoli apicali in Bankitalia, l’uno come governatore, l’altro come direttore generale, e Monti poteva vantare un passato come commissario europeo. Conte invece, oltre a non aver mai ricoperto una carica elettiva, neanche in un consiglio comunale, non ha mai amministrato alcunché. In altre parole: oltre agli interrogativi sul suo curriculum, è del tutto privo di qualsiasi esperienza politica e amministrativa.

Conte impersona perfettamente l’establishment, ma Di Maio ce lo racconta come uomo del popolo

Ma la vera innovazione sta in un altro punto. Il tecnico Conte sta per essere chiamato a dirigere un governo prettamente partitico e politico. E dovrebbe avere al suo fianco i due pesi massimi Di Maio e Salvini come titolari di ministeri importanti, in più probabilmente insigniti della carica di vicepremier. Sono stati loro due ad accordarsi sul programma di governo che Conte dovrà realizzare e sulla lista dei ministri che dovrà coordinare.

È una pura e semplice quadratura del cerchio, anche se Di Maio cerca di negare l’evidenza. Afferma infatti che Conte “sarà il premier politico di un governo politico” e argomenta che il professore di legge faceva già parte del governo ombra dei cinquestelle, presentato pochi giorni prima delle elezioni, e che quindi si può ritenere “votato da undici milioni di italiani”, anche se il suo nome non figurava su nessuna scheda elettorale e quindi non fa parte né della camera né del senato.

Il leader dei cinquestelle cerca di far quadrare il cerchio anche su un altro punto: il personaggio. Conte impersona perfettamente l’establishment (parola alla quale non va data nessuna valenza, né negativa né positiva), ma Di Maio ce lo racconta come uomo del popolo, partito dalla “periferia dell’Italia”, uno che “si è fatto da sé”. Aver scelto una persona potenzialmente rassicurante anche nei consessi europei può rappresentare ugualmente una scelta plausibile.

Altra questione è se questa scelta funzionerà. Infatti Conte si trova di fronte a un dilemma difficilmente risolvibile. Può accettare il ruolo di semplice esecutore delle scelte dei veri leader della coalizione, cercando di rappresentare al meglio “nel sistema” un governo di due partiti antisistema. O può pretendere di essere lui, secondo le sue prerogative costituzionali, il vero capo alla guida del governo.

In questo caso il conflitto tra lui e i partiti che lo hanno designato sarebbe inevitabile. Che la convivenza tra politici e tecnici sia alquanto difficile ce lo racconta – con ruoli inversi – la giunta capitolina di Virginia Raggi. In quel caso era lei, sindaca, l’unica figura politica, circondata da assessori tecnici. Molti di loro si sono ben presto trovati in rotta di collisione con la sindaca e il suo movimento politico, e molti di loro hanno rassegnato le dimissioni.

Ma la scelta di Conte sembra una scelta quasi obbligata, non soltanto per i veti incrociati tra Di Maio e Salvini. È una scelta per tranquillizzare quell’Europa dalla quale cominciamo a sentire arrivare toni talvolta striduli, dal capogruppo dei popolari nel Parlamento europeo Manfred Weber (l’Italia “gioca con il fuoco”) al ministro delle finanze francese Bruno Le Maire, che vede minacciata la stabilità dell’eurozona dal governo gialloverde.

In questa logica di tranquillizzare l’Europa e i mercati finanziari – lo spread nei confronti dei Bund tedeschi entro pochi giorni è aumentato dello 0,5 per cento – si inscrive anche la probabile scelta per due ministri chiave. Giampiero Massolo, già diplomatico di lungo corso – arrivato fino al vertice della Farnesina come direttore generale – poi capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis, che coordina i servizi segreti), oggi presidente di Fincantieri, dovrebbe diventare ministro degli esteri; Enzo Moavero Milanesi invece ministro degli affari europei, carica già ricoperta nei governi Monti e Letta.

Sono due personaggi che più establishment non si può e quindi due personaggi perfetti per coprire il fianco al nascente governo antiestablishment. Ma anche nel loro caso è tutto da vedere se questa scelta nel lavoro quotidiano del governo funzionerà: nessuno dei due sarà disposto a limitarsi a un ruolo di foglia di fico.

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