23 febbraio 2016 11:22

Esiste un metodo a prova di bomba per scatenare una lite inutile e frustrante con un partner, amico, genitore o figlio, in realtà con chiunque. Basta cominciare facendo un’osservazione obiettivamente corretta, ma che implica un giudizio.

Per esempio, tornare a casa e dire: “Accidenti, che disordine c’è qui”. L’altra persona si arrabbierà per la critica che sottintende: “Sono stata al lavoro tutto il giorno anch’io, sai?”. E poi, difendere con forza l’affermazione iniziale, ma concentrandosi solo sul suo significato superficiale: “Sto semplicemente constatando un fatto. Non negherai che c’è un gran disordine”.

Ore di frecciatine

Complimenti, avete creato un caso da manuale di discussione basata su un equivoco, in cui entrambe le parti hanno ragione per motivi diversi – è vero, il disordine c’è, ma non è quello che intendevate dire – e con questo vi siete garantiti diverse ore di frecciatine, fino a quando non andrete a dormire, o finché non si presenterà un’alternativa migliore, come mettersi finalmente a pulire la sporcizia tra le mattonelle del bagno.

È ovvio che non vi sto consigliando di farlo volutamente, ma vi capiterà comunque di trovarvi invischiati in litigi del genere. Per capire perché, lasciate perdere gli innumerevoli libri di autoaiuto sulla comunicazione di coppia e rivolgetevi a un vecchio manuale piuttosto tecnico, Come fare cose con le parole del filosofo John Langshaw Austin.

A questo proposito, la missione di Austin è demolire quella che definisce la “fallacia descrittiva”, vale a dire l’idea che il linguaggio si limita a descrivere il mondo. In realtà, fa molte altre cose. Quando dico “Vorrei un altro bicchiere di vino”, non sto solo comunicando al cameriere i miei desideri, nell’eventualità che sia interessato a conoscerli, gli sto gentilmente chiedendo di portarmene uno.

Perciò, anche “Accidenti, che disordine c’è qui” può essere una descrizione accurata della situazione, ma il mio vero intento – la sua “forza illocutoria”, per usare il gergo di Austin – è cercare di far sentire in colpa l’altra persona, o di costringerla a mettere in ordine. Da una parte c’è quello che significa la frase, dall’altra quello che intendiamo dire.

L’affermazione ‘tutte le vite contano’ non è razzista. Ma quello che sottintende potrebbe esserlo

Non è tanto difficile capirlo, ma a volte sembra che metà delle discussioni nasca dal fatto che la gente dimentica, o finge di dimenticare, questa distinzione. Questo è più vero che mai negli insidiosi meandri di internet: provate a leggere una qualsiasi serie di commenti sotto un articolo che parla di Black lives matter, le vite dei neri contano, la campagna contro il razzismo lanciata negli Stati Uniti, e troverete di sicuro qualcuno che commenta che “tutte le vite contano”, poi qualcuno che dice che la sua è un affermazione razzista e qualcun altro che sostiene che non lo è, perché in fondo è vero che tutte le vite contano…

“Tutte le vite contano” è un classico caso di affermazione che confonde i due livelli. Il suo contenuto descrittivo non è razzista, ma la sua forza illocutoria – quello che sottintende – potrebbe esserlo. Perciò entrambe le parti possono discutere all’infinito mantenendo in piedi questo equivoco, ognuna convinta di avere ragione.

Ricordare questa distinzione non metterà magicamente fine a qualsiasi ostilità, anche perché la confusione è spesso voluta (ho il sospetto che quelli che dicono “tutte le vite contano” sappiano benissimo a che gioco stanno giocando: sono razzisti, ma stanno cercando un alibi).

In ogni caso, vale la pena tenerla a mente, se non altro per evitare di lasciarsi trascinare in lunghe polemiche dalle quali non si potrà mai uscire vincenti. Non c’è mai un buon motivo per portare avanti una discussione basata su un equivoco, a meno che il vostro scopo non sia far arrabbiare qualcuno.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

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