05 settembre 2017 13:15

In una vecchia vignetta dell’americana Roz Chast, un cameriere si avvicina a una donna che ha il piatto ancora pieno e le chiede: “Non ce la fa più?”. “No, in realtà sono completamente esausta”, risponde lei. “Forse se me lo incarta, posso finirlo a casa”. Il titolo è “Un’altra giornata nelle miniere di sale”. Per fortuna, l’idea che mangiare un piatto prelibato – cucinato da qualcun altro! – sia equiparabile a un lavoro rimane essenzialmente confinata agli Stati Uniti.

Ma l’abitudine di definire qualsiasi attività come un lavoro è più diffusa. Il matrimonio, ci dicono continuamente gli esperti di relazioni e le celebrità in via di divorzio, è un lavoro. Essere genitori è “il lavoro più difficile del mondo”. Perfino il piacere è diventato un impegno, quando cerchiamo di raggiungere i diecimila passi sui nostri apparecchi per monitorare l’attività fisica, o mettiamo una crocetta dopo ogni esperienza sulla nostra “lista dei desideri”, una sorta di elenco delle cose da fare di cui non ci è concesso neanche il piacere di lamentarci perché, in teoria, dovrebbero essere divertenti.

Il lavoro emotivo
Negli ultimi decenni, sempre più cose sono state definite come lavoro per valorizzare attività che ricadono ancora in modo sproporzionato sulle donne – cucinare, occuparsi dei bambini e dei parenti anziani – e che tuttavia non sono meno fondamentali per la società solo perché non sono retribuite.

Ma come ha scritto di recente il professore di teologia Jonathan Malesic su The New Republic, anche questo nobile intento ha il suo lato oscuro: portando all’esterno la logica del luogo di lavoro, implicitamente ammettiamo che è degna di apprezzamento solo la categoria di chi lavora in modo retribuito. “Se tutto è lavoro”, scrive Malesic, “allora non si può più parlare di un giusto equilibrio tra lavoro e vita privata”. E si comincia a giudicare genitori, partner e altre persone in base alla loro etica del lavoro. “Critichiamo le madri che non fanno la ‘cosa giusta’ come allattare al seno o stabilire un contatto pelle a pelle con il neonato pochi secondi dopo il parto”, dice, e consideriamo fannullone egoiste quelle che non hanno figli.

L’idea del “lavoro emotivo” è un affascinante esempio di questa tendenza. Negli anni ottanta, questa utile espressione, coniata dalla sociologa Arlie Hochschild, si riferiva al faticoso impegno richiesto alle persone che svolgevano certi mestieri – anche in questo caso, di solito di trattava di donne – di essere sempre sorridenti e premurose, comunque si sentissero dentro.

Ma negli ultimi anni, si è arrivati a considerare un lavoro anche ascoltare un partner o un amico parlare dei suoi problemi. Gli uomini che danno per scontato che le donne devono stare pazientemente ad ascoltare i loro lamenti denotano indubbiamente un certo sessismo. Però non è comunque strano definire l’atto in sé, cioè ascoltare la persona che ami, come un’imposizione della quale faresti volentieri a meno? Se un aspetto così fondamentale di un rapporto equivale a un lavoro, è difficile immaginare che cosa non lo sia.

Non si può non essere d’accordo con Malesic sul fatto che, in un mondo ideale, daremmo valore a tutte queste attività di tipo interpersonale – e introdurremmo politiche che consentono di avere il tempo di svolgerle – non perché sono lavori, ma semplicemente perché sono importanti. Per contare, un’attività non dovrebbe necessariamente essere un lavoro, e le persone non dovrebbero per forza essere grandi lavoratrici.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it