26 settembre 2017 12:48

“I pazienti possono essere buoni terapisti di se stessi”, proclamava poco tempo fa il sito di Quartz alla luce di un nuovo studio che ha riscontrato una differenza irrisoria tra l’affidarsi a uno specialista in terapia cognitivo-comportamentale e il ricorrere a vari esercizi di autoaiuto. Naturalmente, un’affermazione simile farà arrabbiare gli psicoterapeuti (e la reazione corretta sarebbe assumere un’aria comprensiva e chiedere: “Perché pensa che questo la faccia tanto arrabbiare?”).

Come osserva Mark Brown in un suo articolo, dovremmo diffidare ogni volta che una scoperta sembra suggerire che la spesa pubblica di uno stato può diminuire se si dice alle persone di cavarsela da sole. Ma la soluzione dell’autoaiuto ha anche un altro limite che sarebbe bene non sottovalutare: come facciamo a essere sicuri di sapere quali sono davvero i nostri problemi?

Di solito, l’autoaiuto funziona così: c’è qualcosa che ci preoccupa – tendiamo a procrastinare, siamo restii ad assumerci qualsiasi impegno, siamo depressi – e cerchiamo un libro che ci aiuti a trovare una soluzione, proprio come cerchiamo un cacciavite o una chiave inglese se le gambe del nostro tavolo da cucina cominciano a traballare. Ma la mente non è un tavolo. Non c’è motivo di presumere – anzi ci sono buoni motivi per dubitare – che conosciamo le nostre ansie e paranoie più profonde.

Una faccenda personale
Invece di sperimentare tecniche per aumentare la nostra produttività, forse dobbiamo accettare il fatto che il nostro lavoro non ci soddisfa. Forse l’autoaccusarci di essere “restii ad assumerci qualsiasi impegno” è il nostro modo di razionalizzare la consapevolezza inconscia che il nostro partner non ci ama. Forse la nostra depressione non è il risultato di “pensieri automatici”, ma un segnale del fatto che stiamo vivendo la vita che hanno deciso i nostri genitori, e non noi.

O forse no: probabilmente alcuni problemi sono esattamente quello che sembrano. Ma la faccenda è così personale che anche il libro migliore del mondo può non cogliere nel segno, mentre un altro essere umano ha almeno qualche possibilità di riuscirci. E se la terapia cognitivo-comportamentale non è veramente meglio dell’autoaiuto, forse si può concludere che non sono gli psicoterapeuti il problema, ma che bisogna cambiare terapia.

Il punto fondamentale non è che un terapeuta è più saggio di noi, e quindi più in grado di dirci quali sono i nostri problemi, ma piuttosto che un buon terapeuta sa come impedirci di individuare frettolosamente il problema e sbrigarci a risolverlo.

Questo è il buon senso alla base del cliché dello psicanalista freudiano che non fa altro che riformulare le affermazioni del paziente sotto forma di domande: non gli consente di scegliere la comoda alternativa di una soluzione che va bene per tutti, spingendolo caparbiamente verso l’autocomprensione. Ma la psicanalisi non è l’unico modo per farlo: ci si può arrivare anche scrivendo un diario, meditando o leggendo alcuni libri.

Tutti questi sistemi hanno in comune il fatto che ci riportano a noi stessi, impedendoci di scegliere l’alternativa facile ma fasulla di adottare la soluzione di qualcun altro. Come molti sostengono che abbia detto Einstein, anche se non lo ha detto davvero: “Se avessi solo un’ora per salvare il mondo, passerei 55 minuti a cercare di definire il problema”.

Inoltre, quando si tratta di psicologia, c’è un vantaggio in più: nella metà dei casi, un problema veramente capito smette di essere un problema.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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