17 aprile 2018 13:18

Parliamo del tempo in termini confusi, come può testimoniare chiunque abbia provato a spostare “più avanti” un appuntamento con me. Sosterrò fino al mio ultimo respiro che questo significa spostarlo nel futuro, proiettato in avanti lungo una linea temporale, verso un punto lontano rispetto a dove mi trovo adesso. Ma ho scoperto che molte persone, invece, pensano che significhi anticiparlo, cioè metaforicamente spostarlo verso di sé.

Il popolo andino degli aymara immagina il futuro alle sue spalle e il passato davanti a sé. Alcune popolazioni di Papua Nuova Guinea lo vedono come una strada in salita. E un nuovo studio italiano dell’università di Pavia aggiunge un dettaglio affascinante: i ricercatori hanno scoperto che le persone cieche dalla nascita o dalla prima infanzia di solito non concepiscono il passato come qualcosa alle loro spalle né il futuro di fronte (anche se naturalmente ne parlano in questo modo come tutti gli altri, perché lo scopo dello studio era sollecitare associazioni istintive). E non percepiscono un evento tra due mesi come “più vicino” di uno accaduto due mesi fa come fanno le persone vedenti, il che è abbastanza sensato: lo spazio futuro è davanti ai nostri occhi, quello passato invece è alle nostre spalle e quindi più difficile da vedere.

Tutto questo ci ricorda quanto sia strano il fatto che pensiamo al tempo usando una similitudine con lo spazio, e che ci sembra impossibile fare diversamente. Se qualcuno mi chiede del prossimo mese, non posso fare a meno di immaginare una serie di quadratini, come quelli di un calendario, mentre se mi chiede cosa ho fatto ieri, alzo gli occhi al cielo come se stessi esaminando uno “spazio” che è da qualche parte dietro alla mia testa.

Quando mi sento oberato dagli impegni mi sembra che il tempo sia un contenitore troppo piccolo per le attività che devo spingerci dentro

Può darsi che le vostre immagini non siano identiche alle mie, ma secondo gli antropologi, questa metafora del tempo come spazio è un concetto universale. Il che in un certo senso è un peccato, perché sono abbastanza sicuro che rende la nostra esperienza del tempo più angosciosa del necessario.

Prendiamo per esempio le nostre attività: quando mi sento oberato dagli impegni mi sembra che il tempo sia un contenitore fisico, troppo piccolo per le attività che devo spingerci dentro (l’antropologo Edward Hall una volta disse che gli americani vedono il tempo come un infinito nastro trasportatore carico di bottiglie da riempire; se una rimane vuota, abbiamo sprecato tempo). Se ci fermiamo a considerare che si tratta solo di una metafora, la cosa è liberatoria. Non c’è nessun contenitore e quindi nessun bisogno di preoccuparsi se sarà grande abbastanza. Ci siamo solo noi in questo momento del tempo e l’unica cosa che possiamo fare è usarlo meglio che possiamo.

Queste metafore sono ingannevoli anche perché ci danno l’illusione di controllare il tempo più di quanto facciamo realmente. Dopotutto (e nonostante il mutuo per la casa), io sono davvero proprietario del mio spazio fisico; e come lo uso dipende solo da me. Invece, ci fa notare il blogger David Cain, non possediamo mai veramente il tempo: “Il tempo che ‘abbiamo’ non è mai dove siamo, e non possiamo mai vederlo, diversamente da tutti gli altri oggetti che possediamo”. I nostri piani possono andare all’aria in qualunque momento, e di sicuro prima o poi ci penserà la morte a interromperli. Perciò agire come se fossimo padroni del tempo è solo un’ottima ricetta per lo stress.

Probabilmente non rinunceremo mai a queste metafore perché, in fondo, sono abbastanza utili. Ma vale anche la pena di ricordare che sono solo metafore. Andando avanti, non sarebbe la cosa più saggia da fare?

Consiglio di lettura
Il libro di James Geary I is an other mostra quanto ci affidiamo alle metafore per dare un senso al mondo circostante – e quanto questo ci aiuta anche a determinare cosa vediamo di primo acchito.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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