14 gennaio 2020 12:58

Finalmente abbiamo una definizione ufficiale per quello che oggi tutti fanno, e che rende estremamente fastidiosi tanti tipi di discorso pubblico (ma anche di conversazioni private): si tratta di “esibizionismo morale”.

Gli esibizionisti morali sono quelle persone sgradevoli che vanno in giro affermando a gran voce le loro convinzioni, associandosi con entusiasmo alle umiliazioni sui social network, e così via, non perché siano molto convinte ma perché vogliono essere ammirate per la loro eccezionale moralità (è un’espressione migliore di “virtue signaling”, cioè sono d’accordo con una persona molto apprezzata dunque sono da apprezzare anch’io).

Secondo una nuova ricerca è un problema reale, diffuso in tutto lo spettro politico, e probabilmente uno dei principali motivi per cui di questi tempi c’è tanta aggressività. Ci sono molte cose per cui lottare, naturalmente, ma ci sono persone che sono un po’ troppo felici di farlo.

Bisogno di adulazione
Eppure non sono convinto che “esibizionismo morale” sia proprio la definizione giusta, perché – come spiegano bene i filosofi che l’hanno coniata – parte dal presupposto che dietro ci sia un’intenzione cosciente. Per essere un esibizionista morale bisogna sapere di non essere sinceri, essere spinti solo dal desiderio di mettersi in mostra. Invece sono quasi certo che se potessimo entrare nella testa di certi fanfaroni che mi vengono in mente mentre stanno per twittare, scrivere su un blog o rivolgersi alla camera dei comuni, scopriremmo che sono sinceramente convinti (questo è sicuramente vero nel caso dell’unico fanfarone nella cui testa posso entrare).

C’è un certo dolente cameratismo nel pensare che nessuno di noi sa esattamente che cosa lo spinge ad agire

Dopotutto, se fossimo profondamente coscienti del nostro spropositato bisogno di essere adulati, andremmo in analisi, lo scriveremmo sul nostro diario o cercheremmo di affrontare il problema in qualche altro modo. È proprio perché non siamo consapevoli di questo bisogno che invece andiamo in giro per il mondo cercando qualcuno che lo soddisfi.

E anche se è una posizione inaccettabilmente freudiana da assumere, oggi probabilmente ha un senso vedere molti aspetti della vita in questo modo: partire dal presupposto che tutti quelli che incontriamo stiano cercando di soddisfare vari bisogni emotivi, dei quali sono almeno in parte inconsapevoli.

Suppongo che tutti quelli che si vantano di essere felici perché sono single o sposati, perché hanno dei figli o non li hanno, probabilmente non siano poi così sicuri della loro scelta; che quelli che si comportano in modo distruttivo lo facciano nel maldestro tentativo di sanare profonde ferite rimosse; e che le persone diventino celebrità non perché hanno più talento di altre ma perché non hanno quello che fa accettare alle non celebrità l’idea che va benissimo anche essere persone comuni.

Forse non è una legge ferrea, ma sono abbastanza sicuro che sia un assunto di partenza più utile di quello opposto, cioè che in genere capiamo noi stessi, abbiamo le idee chiare su tutto, e che quando qualcuno fa qualcosa di male è perché ha deciso arbitrariamente di farlo (ma dobbiamo applicare lo stesso ragionamento a noi stessi, altrimenti è solo un altro modo per mantenere il nostro senso di superiorità).

Niente di tutto questo giustifica comportamenti spaventosi. Ma c’è un certo dolente cameratismo nel pensare che nessuno di noi sa esattamente che cosa lo spinge ad agire, e che il nostro esibizionismo morale, con gli altri nostri aspetti sgradevoli, è un mistero per noi quanto è irritante per tutti gli altri.

Consigli di lettura
Nel suo ultimo libro Living an examined life, lo psicoterapeuta James Hollis riflette sull’osservazione di Jung che “tutto quello che è negato dentro di noi probabilmente ci ritorna dal mondo esterno in forma di fato”.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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