17 marzo 2020 13:34

Nel 2000, nel suo libro Bobos in paradise. The new upper class and how they got there, l’editorialista americano David Brooks osservava che i membri della nuova classe emergente che definiva “bohémien borghesi”, amavano in modo particolare le superfici ruvide; i piani della cucina di ardesia, i tappeti grezzi, i caminetti di pietra, e così via. Mentre i loro genitori apprezzavano le superfici lisce, questi capitalisti delle controcultura (e non per essere scortese, ma ho il sospetto che tra i lettori del Guardian ce ne sia qualcuno) volevano tornare alla terra. Brooks aveva anche capito che vedevano un aspetto etico nelle loro scelte. I loro taglieri di legno grezzo non significavano solo che loro vivevano meglio, ma che erano persone migliori.

Questo mi è tornato in mente l’altro giorno quando ho letto un nuovo studio sul fenomeno psicologico della “autocertificazione morale”. Ormai è noto già da qualche tempo che tendiamo a usare le nostre azioni etiche come scusa per le nostre azioni che lo sono di meno. Perciò, per esempio, la persona che elimina la plastica monouso dalla sua vita si sente autorizzata a fare un paio di voli a lungo raggio in più all’anno, anche se il danno che producono i voli potrebbe superare i vantaggi della prima scelta. Ma una nuova ricerca tedesca di Jannis Engel e Nora Szech, ci apre uno spiraglio allarmante su quanto siamo pronti ad autogiustificarci.

Falsa virtù
L’esperimento si basava sull’acquisto di asciugamani, le sue modalità sono un po’ complicate da descrivere, ma la scoperta finale è desolante: i partecipanti che pensavano di fare una scelta etica comprando asciugamani di “puro cotone biologico” si sono dimostrati meno preoccupati di sapere se erano prodotti in condizioni di lavoro etiche di quelli che avevano scelto asciugamani normali.

Anche ipotizzando che il cotone biologico sia più ecologico (e questo è oggetto di disputa), molte delle persone che lo apprezzano lo fanno di sicuro perché egoisticamente lo ritengono un prodotto di qualità migliore. Tuttavia, a quanto sembra, questo le convince di essere così virtuose da non sentirsi obbligate a verificare le condizioni di lavoro in cui è stato prodotto.

Non posso negare che ci sia qualcosa di strano nel trasformare lo “stile di vita etico” in un codice morale

Mi ritrovo sempre più spesso a chiedermi se la frequenza di scoperte come queste non indichi che c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel concetto che il filosofo Daniel Kaufman definisce “moralità ubiqua”: l’idea che dovremmo considerare ogni azione della nostra giornata prima di tutto attraverso la lente dell’etica. Questo “scrutinio morale delle minuzie della vita quotidiana”, a suo avviso è sospetto per diversi motivi. Tanto per cominciare, ci si ritorce contro, scatenando il nostro risentimento nei confronti delle persone più “sante” di noi, e potrebbe addirittura aver contribuito a fenomeni come l’elezione di Donald Trump (che di certo non è stata un bene per l’ambiente). Un altro problema, prosegue Kaufman, è che questa teoria dà per scontato che la moralità sia l’unica virtù degna di essere coltivata, mentre per le arti, lo sport, la letteratura, la vita familiare, e molte altre cose, non è indispensabile prendere decisioni su come usare il nostro tempo, o spendere i nostri soldi, solo per motivi etici. Una società fatta esclusivamente di santi sarebbe un posto peggiore in cui vivere.

Non sono sicuro di essere d’accordo con lui, o anche se lo sono, non penso che questo sia un buon motivo per non cercare di fare scelte etiche in quanto consumatori. Ma non posso negare che ci sia qualcosa di strano nel trasformare lo “stile di vita etico” in un codice morale perché a) è impossibile rispettarlo alla lettera, e b) anche se tutti lo rispettassero, non porterebbe a una società migliore. Forse dovremmo convogliare le nostre energie tese a migliorare il mondo in un’altra direzione.

Consigli di lettura
Nel suo saggio Moral saints, la filosofa Susan Wolf sostiene che vivere nel modo più etico possibile è un pessimo obiettivo a cui mirare.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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