Nel primo articolo della mia rubrica per il Guardian, un numero vertiginoso di anni fa, ho scritto che avrei continuato finché non avessi scoperto il segreto della felicità, e poi avrei smesso. All’epoca, quello era il mio modo di scherzare per mascherare la verità. Naturalmente, non mi aspettavo di scoprire quel segreto, ma probabilmente sapevo che c’erano domande che dovevo affrontare sull’ansia, sulla paura di impegnarsi nelle relazioni, sulla mania del controllo e su come costruire una vita che avesse un senso. Scrivere una rubrica mi avrebbe fornito la copertura perfetta per un viaggio che altrimenti sarebbe stato imbarazzante da compiere.
Speravo di aiutare anche gli altri, ovviamente, ma ero totalmente impreparato a quanto fosse piacevole il viaggio: anche se di tanto in tanto ho ricevuto richieste di aiuto per problemi personali, la mia casella di posta si è principalmente riempita di idee, storie di vita, citazioni e consigli di libri da parte di lettori spesso molto più saggi di me (alcuni di voi avrebbero avuto il diritto di addebitarmi la parcella standard di un analista). Per tutto questo, vi ringrazio.
Un’intervista a Oliver Burkeman realizzata nel 2016 durante il festival di Internazionale a Ferrara.
Adesso ho deciso di mettere un punto non perché abbia trovato tutte le risposte, ma perché ho la forte sensazione che sia il momento giusto per farlo. Se non altro, spero di aver acquisito una sufficiente conoscenza di me stesso per sapere quand’è il momento di voltare pagina. Allora cosa ho imparato? Quello che segue non vuole essere un riepilogo esaustivo. Ma sono princìpi emersi più di una volta, e che ora mi sembrano i più utili per affrontare un periodo sconcertante e stressante come quello che stiamo vivendo.
Avremo sempre troppo da fare e questa consapevolezza è liberatoria
Oggi più che mai non c’è motivo di presumere che ci sia un’esatta corrispondenza tra ciò che richiede il nostro tempo – tutte le cose che vorremmo fare o che riteniamo di dover fare – e la quantità di tempo che abbiamo a disposizione. Grazie al capitalismo, alla tecnologia e all’ambizione umana, queste richieste continuano ad aumentare, mentre le nostre capacità rimangono più o meno le stesse. Ne consegue che il tentativo di “sbrigare tutto” è condannato al fallimento (in effetti, è anche peggio di così: più attività svolgiamo, più ne generiamo).
Il lato positivo è che non dobbiamo rimproverarci per non aver fatto tutto, dal momento che è strutturalmente impossibile. L’unica soluzione è passare da una vita spesa a non trascurare nulla a una vita trascorsa in modo attivo e consapevole, scegliendo che cosa trascurare e che cosa conta di più.
Quando siamo bloccati davanti a una scelta di vita, è meglio scegliere di crescere invece che essere felici
Sono in debito con lo psicanalista junghiano James Hollis per aver intuito che dovremmo prendere le nostre decisioni personali più importanti non chiedendoci se ci renderanno felici, ma chiedendoci se quella scelta ci farà crescere. Siamo pessimi nel prevedere cosa ci renderà felici: è una domanda che si incaglia quasi subito nella nostra preferenza per la sicurezza e il controllo. Mentre quella sulla crescita provoca una risposta più profonda e intuitiva.
Sappiamo benissimo, per esempio, che interrompere o continuare una relazione o un lavoro, anche se potrebbe darci conforto nell’immediato, significherebbe ingannare noi stessi sulla crescita (per lo stesso motivo, non dovremmo preoccuparci di tagliare i ponti: le decisioni irreversibili in genere sono più soddisfacenti, perché adesso c’è solo una direzione in cui viaggiare, ed è in avanti, qualunque scelta abbiamo fatto).
La capacità di sopportare un piccolo disagio è un superpotere
È incredibile rendersi conto della prontezza con cui mettiamo da parte anche le nostre più grandi ambizioni semplicemente per evitare livelli di disagio facilmente tollerabili. Sappiamo già che non ci ucciderà sopportare la leggera agitazione di tornare a lavorare su un progetto creativo importante, avviare una conversazione difficile con un collega, chiedere a qualcuno di uscire o controllare il saldo del nostro conto in banca, ma a volte sprechiamo anni per evitare di farlo (questo è il modo in cui prosperano i social network: offrendo un luogo immediatamente disponibile e consolante dove spostarsi al primo accenno di disagio).
È possibile invece aumentare gradualmente la nostra capacità di sopportare il disagio, come chi si allena con i pesi in palestra. Quando ci aspettiamo che un’azione sarà accompagnata da un senso di irritabilità, ansia o noia, di solito possiamo lasciare che queste sensazioni insorgano e svaniscano, mentre compiamo comunque quell’azione. Le ricompense arriveranno così rapidamente, in termini di risultati, che presto diventerà il modo più piacevole di vivere.
Il consiglio che non vogliamo sentire di solito è proprio quello di cui abbiamo bisogno
Ho passato tanto tempo a cercare di diventare più produttivo prima di arrivare finalmente a chiedermi perché mai puntavo così tanta della mia autostima sui miei livelli di produttività. Quello di cui avevo bisogno non era scrivere un altro entusiasmante libro sulla produttività, dal momento che funzionano solo come facilitatori, ma cominciare a pormi domande più scomode.
Più in generale, non è divertente affrontare le esperienze emotive che stiamo evitando – se lo fosse, non eviteremmo di farlo – quindi il consiglio che potrebbe esserci veramente utile probabilmente ci metterà in difficoltà (con un po’ di attenzione, perché anche i cattivi consigli di amici o partner invadenti potrebbero metterci in difficoltà).
Una buona domanda da porsi è che tipo di cose ci colpiscono perché ci sembrano fasulle o egocentriche: i diari dove esprimere gratitudine, la meditazione per arrivare alla conoscenza di sé, andare in analisi? Potrebbe significare che vale la pena provarci (posso dire per esperienza personale che tutte e tre le cose valgono la pena). Ah, e cerchiamo di essere particolarmente cauti nei confronti delle celebrità che offrono consigli in tv: probabilmente hanno cercato la fama per riempire un vuoto interiore, cosa che in genere non funziona, quindi forse sono più disturbate di noi.
Il futuro non ci fornirà mai la rassicurazione che cerchiamo
Come avevano già capito gli antichi stoici greci e romani, gran parte della nostra sofferenza deriva dal tentativo di controllare ciò che non dipende da noi. E la cosa principale che proviamo a controllare senza riuscirci – almeno quelli di noi inclini alla preoccupazione cronica – è il futuro. Vorremmo sapere, dal nostro punto di vista presente, che in seguito le cose andranno bene. Ma non possiamo (questo è il motivo per cui è sbagliato dire che viviamo in tempi particolarmente incerti. Il futuro è sempre incerto, è solo che al momento ne siamo particolarmente consapevoli).
È liberatorio capire che, per quanto ci agitiamo, non potremo mai alterare questa verità. È comunque utile fare progetti. Ma farlo con la consapevolezza che un piano è sempre e solo una dichiarazione di intenti del presente, non un laccio lanciato verso il futuro per tenerlo sotto controllo. Il maestro spirituale Jiddu Krishnamurti diceva che il suo segreto era semplice: “Non mi importa quello che succederà”. Questo non significa non cercare di migliorare la nostra vita e quella degli altri. Significa solo non vivere ogni giorno nell’ansia, pronti a vedere se le cose vanno come speravamo.
La soluzione alla sindrome dell’impostore è capire che lo siamo tutti
Quando ho scritto per la prima volta che è utile ricordare che tutti stanno sempre improvvisando, non eravamo ancora entrati nell’attuale era dell’incompetenza dei leader (Brexit, Trump, coronavirus). Adesso è più difficile ignorarlo. Ma la lezione da trarne non è che siamo condannati al caos. È che ognuno di noi – insicuro, impacciato, fin troppo consapevole dei propri difetti – può dare un contributo nel suo campo, o al mondo, quanto chiunque altro.
L’umanità è divisa in due categorie: da un lato ci sono quelli che attraversano la vita improvvisando, trovando soluzioni approssimative e spegnendo incendi lungo la strada, ma continuando a illudersi. Dall’altro ci sono quelli che fanno esattamente la stessa cosa, ma ne sono consapevoli. È infinitamente meglio appartenere alla seconda categoria (anche se troppa parte delle lezioni di assertività consiste in tecniche che ci fanno rientrare nella prima).
Non dimentichiamocelo: il motivo per cui non possiamo sentire i monologhi interiori con cui le altre persone esprimono la loro insicurezza non è che non esistono. È che abbiamo accesso solo alla nostra mente.
L’altruismo è sopravvalutato
Noi persone rispettabili, e in particolare le donne, siamo state educate a pensare che una vita ben spesa è una vita passata ad aiutare gli altri, e molti guru dell’autoaiuto sono pronti ad affermare che la gentilezza, la generosità e il volontariato sono la vera strada per la felicità. C’è della verità in questo, ma generalmente si intreccia con i sensi di colpa e la mancanza di autostima (nel frattempo, ovviamente, le persone che si vantano tutto il giorno su Twitter del loro volontariato o della loro consapevolezza politica non sono affatto altruiste, stanno lustrando il loro ego).
Se siamo inclini a pensare che dovremmo aiutare di più gli altri, probabilmente è segno che potremmo permetterci di usare più energie per soddisfare le nostre ambizioni e curare i nostri interessi particolari. Come osserva la maestra buddista Susan Piver, è fondamentale, almeno per alcuni di noi, chiederci come ci piacerebbe trascorrere un’ora o un giorno di tempo che abbiamo a disposizione. E il paradosso è che in realtà reprimendo le nostre vere passioni non aiutiamo nessun altro. Il più delle volte, facendo le cose che ci interessano, piuttosto che quelle che pensiamo di dover fare, accendiamo un fuoco che aiuta a mantenere tutti al caldo.
Capire quando è il momento di voltare pagina
E poi, infine, c’è la necessità di capire quando qualcosa che ha significato molto per noi, come per me scrivere questa rubrica, ha raggiunto il suo traguardo naturale e che la scelta più creativa è passare a quello che viene dopo. Io sono a questo punto. Grazie per avermi letto.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Il nuovo libro di Oliver Burkeman Four thousand weeks. Time management for mortals sarà pubblicato il prossimo anno da The Bodley Head.
Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.
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