07 marzo 2021 10:18

Si è aperta una nuova frattura in quello che un tempo veniva chiamato occidente. Sottraendo legittimità politica al suprematismo bianco, gli Stati Uniti hanno avviato una riflessione sul loro passato schiavista, e cominciano a dare il giusto riconoscimento alla loro diversità demografica. Allo stesso tempo le classi dirigenti di Francia e Regno Unito si rifiutano di fare questo tipo di analisi e cercano di ritardare una riconfigurazione dell’identità nazionale che sarebbe urgente per entrambe. Covata a lungo, la rabbia per l’ingiustizia razziale è esplosa nel 2020 negli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd, un nero ucciso da un poliziotto bianco. Anche se i conservatori si sono concentrati sulla violenza che ha accompagnato una minima parte delle proteste del movimento Black lives matter, pochi hanno avuto il coraggio di negare che la situazione era diventata insostenibile.

I leader britannici hanno guardato con fastidio alle proteste negli Stati Uniti e alle manifestazioni sul loro territorio. La ministra dell’interno britannica, Priti Patel, le ha definite “spaventose”. Il Partito conservatore, responsabile di tanti morti nella prima ondata della pandemia, si è lanciato in una crociata culturale contro le persone che abbattevano le statue di schiavisti nel Regno Unito.

Numerosi giornalisti, intellettuali e politici francesi, tra cui il presidente Emmanuel Macron, si sono spinti oltre: hanno deciso che le idee che arrivano dalle università statunitensi rappresentano una minaccia per il loro paese. Come ha scritto il New York Times, sono convinti che “le idee progressiste statunitensi – in particolare su razzismo, disuguaglianze di genere e postcolonialismo – stiano minando la loro società”.

Nostalgie dell’impero
Questa nuova modalità di antiamericanismo può sembrare sconcertante, e i suoi obiettivi – la cultura woke (vigile e consapevole) e gli ambienti accademici statunitensi – troppo astratti. Ma la denuncia statunitense della supremazia bianca e dell’oppressione razziale colpisce al cuore, ancora bianchissimo, dell’identità nazionale britannica e francese. Nel 2014 da un sondaggio di YouGov è emerso che quasi sei britannici su dieci si dichiaravano fieri dell’impero, definito un’entità razzista da figure come George Orwell e Gandhi. Fatto non sorprendente, la campagna per la Brexit nel 2016 ha fuso la nostalgia per l’impero con spudorate allusioni razziste. In un recente sondaggio la percentuale di estimatori dell’impero è scesa al 32 per cento. Un dato sconcertante, conseguenza di una formazione inadeguata sull’impero a scuola, di film e serie tv nostalgiche sull’India britannica, e della scarsa presenza delle minoranze sui mezzi d’informazione.

Circa sessant’anni dopo che il suo impero in Algeria è crollato, la Francia rimane in uno stato di negazione e si rifiuta di riconoscere il suo razzismo sistematico. Il velo di silenzio steso sulle tattiche – omicidi, torture e stupri – che i francesi hanno usato nella lotta contro i guerriglieri in Algeria non è stato sollevato fino agli anni novanta. Nel frattempo l’Algeria si è minacciosamente insinuata nella politica francese con Jean-Marie Le Pen. Le Pen, ex soldato e torturatore in Algeria e fondatore del Front national, ha creato uno spazio per l’estrema destra che oggi è occupato da sua figlia Marine. Non sorprende che Macron, in vista della sfida per la rielezione che lo attende il prossimo anno, stia cercando di superare Marine Le Pen a destra, denunciano il “separatismo” musulmano e le “teorie importate dagli Stati Uniti”.

Mentre l’occidente perde coesione, il divario ideologico tra Stati Uniti ed Europa si allarga. Secondo lo scrittore nero James Baldwin, che osservò da vicino la sfiducia con cui gli europei guardavano alle minoranze di pelle più scura, gli afroamericani, nonostante tutte le atrocità subite, non erano “degli ospiti in occidente, ma dei cittadini”, e lui stesso era uno “statunitense quanto gli statunitensi che lo disprezzano”. In altre parole, il “tornate da dove siete venuti” degli europei non funziona oltreoceano, dove gli schiavi furono una parte ineliminabile del tessuto sociale. Gli Stati Uniti, aggiungeva Baldwin, non avevano “solo creato un nuovo uomo nero, ma anche un nuovo uomo bianco”. Gli statunitensi bianchi erano diversi dai bianchi europei, perché profondamente intrecciati, nel bene e nel male, alla vita delle minoranze del loro paese. Perfino un critico del razzismo americano come lui vedeva in questo un “successo” del suo paese.

Oggi nell’establishment bianco francese e britannico molti vorrebbero rallentare i progressi fatti negli Stati Uniti sulla questione razziale e si scagliano contro la cultura woke e la cancel culture. Il loro tentativo potrebbe garantirgli qualche vittoria elettorale. Ma avrebbe un costo: un crescente distacco dalla realtà. Perché, come scrisse Baldwin, “questo mondo non è più bianco, e bianco non sarà mai più”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1398 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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