05 settembre 2017 18:03

1. The Surfing Magazines, You could never come to me too soon
Sembra uno di quei pezzi di oscuri album degli anni sessanta che Quentin Tarantino tirava fuori per appiccicarli sui titoli di testa di qualche Jackie Brown appena in tempo per far la fortuna di musicisti semidimenticati. Invece è una band rétro nata dalla promiscuità di membri dei Wave Pictures e degli Slow Club. Nobile serie b britannica, dove giocare da mediani in stile Smiths sarebbe garanzia di anonimato, ma reinventarsi per un campionato di surf malinconico sui lidi di Brighton può regalare gloria inattesa.

2. Giulio Cantore& Almadira, Almadira
E questo, da dov’è sbarcato? Un suono tropicalista di legni e di corde, Brasile e Africa cocco, Andalusia e Murgia, berimbao bansuri e doudouk e soprattutto strumenti fatti in casa. Cantore di mestiere fa il liutaio e qui raccoglie un assortimento di chitarre, come i detriti sul bagnasciuga di cui (in dialetto riminese che sembra carioca) parla il titolo: Almadira. Canzoni con un sole nel cuore, eseguite dal Cantore nel giorno del matrimonio, con un paio di amici a condividere tutto quello che unisce quel che separa.

3. Carmen Souza, Escuta Moçambique
“I’d like to spend some time in Mozambique”, diceva una canzone di Bob Dylan. In fondo ad ascoltare Creologiy, l’album di Carmen Souza, fa un po’ lo stesso effetto: un po’ Mozambico, un po’ New Orleans, un po’ mare, molto contrabbasso, molto jazz club world music festival (e intellighenzia di Capalbio che come nella famosa vignetta non vuole essere svegliata dal vucumprà perché sta sognando un mondo migliore per lui). Non ha per nulla il pathos di Cesária Évora, eppure Carmen è un fenomeno capoverdiano di suo, tribale e cerebrale.

Questa rubrica è stata pubblicata il 1 settembre 2017 a pagina 88 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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