01 gennaio 2018 12:12

1. Colapesce, Pantalica
È un’avventura nella necropoli misteriosa, questo pezzo del cantautore siciliano, in apertura di un album d’intelligente alt-pop come Infedele. Una raccolta di confessioni avventurose, reperti d’anima, crolli e sfide. Si scava tra l’elettronica di marca Iosonouncane e il lacerante sax di Gaetano Santoro, che riporta alla luce resti di free jazz. Intanto, altrove nell’album, si circumnavigano seni con Vasco da Gama, ci si sente sbagliati come un Negroni con Maometto a Milano e si resta Sospesi, in due, mentre fioccano panettoni. Auguri.

2. Tom Waits, Make it rain
Tom Waits sembrava veramente andato, ai tempi di Real Gone. Era in parabola discendente, da affabile Bukowski da cocktail bar con i suoi schizzi al piano (Nighthawks at the diner), a felliniano presentatore di un circo di sbandati e freaks (Swordfishtrombones), fino alla fase apocalittica. Butta in mare il pianoforte, trasforma l’enfisema in uno strumento ritmico, gli sputacchi in percussioni, e via, a fabbricare ballate da officina delle ruggini, chitarre di Marc Ribot e bassi di Les Claypool. Anche rimasterizzato, come non volergli bene?

3. Nicola Di Bànari, Hallelujah
“Su menzus ch’apo, est pagu ma Naschet dae s’oru ’e s’anima”. Cioè: il meglio che ho è poco ma nasce dal fondo dell’anima. Il miglior inno spirituale per le festività potrebbe essere questa nuova versione sarda di quella che è forse la canzone più bella di sempre. Riscritta e interpretata dal graffiante cantante dei Nasodoble (noti per la ballata antidegrado Cazz boh). Tra violini, voli di barbagianni e note segrete da tenores, a Nicola Di Bànari riesce un convincente Hallelujah, per congedare questo primo giro di calendario senza Leonard Cohen.

Questa rubrica è stata pubblicata il 22 dicembre 2017 a pagina 102 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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