24 settembre 2017 10:22

Ci sono voluti quarant’anni. Gli Stati Uniti scopriranno in televisione la guerra del Vietnam raccontata da chi l’ha fatta, da tutti coloro che l’hanno fatta, compresi i nemici di ieri. In The Vietnam war (La guerra del Vietnam), 18 ore di documentario trasmessi questa settimana negli Stati Uniti, gli autori Ken Burns e Lynn Novick hanno intervistato sia i veterani statunitensi sia vietnamiti dei due schieramenti.

Può sembrare banale, ma lo scrittore vietnamita-americano Viet Thanh Nguyen, autore del romanzo Il simpatizzante ha raccontato poco tempo fa a L’Obs la sua frustrazione quando aveva scoperto Apocalypse now, il film che per molto tempo ha incarnato in tutto il mondo la guerra degli Stati Uniti in Vietnam. La guerra, ha osservato lo scrittore,

è stata raccontata solo dal punto di vista degli americani. E non aveva nulla a che fare con quello che avevo sentito io del Vietnam. La morte peggiore è quella inflitta con la negazione della tua storia, cancellandola dai libri e dai film. Ci sono molti autori vietnamiti che hanno scritto sulla guerra del Vietnam. Penso per esempio a The sorrow of war (Il dolore della guerra) il capolavoro di Bảo Ninh, ma i suoi libri sono poco conosciuti dal grande pubblico. Mi rattrista ogni volta sentirmi dire che il mio è il primo libro sulla guerra del Vietnam vista da un vietnamita. In realtà gli Stati Uniti hanno perso militarmente la guerra in Vietnam ma l’hanno vinta culturalmente, inserendo, grazie a Hollywood, la loro versione della storia.

Ho scoperto The sorrow of war per caso, in una via di Hồ Chí Minh, l’ex Saigon, quando me l’aveva offerto un bambino in un’edizione pirata, fotocopiato male, in inglese. L’avevo comprato per un prezzo ridicolo senza sapere il trauma che quella lettura avrebbe rappresentato per me: un soldato nordvietnamita diventato scrittore raccontava questa guerra con dei sentimenti, delle emozioni, un’umanità, una lingua con cui non ci eravamo mai confrontati, al di là delle scelte di campo.

Per quanto possiamo essere stati vicini ai combattenti vietnamiti nel corso di questa guerra che ha segnato una generazione di occidentali (i comitati Vietnam erano nati nei licei francesi qualche mese prima del maggio 1968), in realtà il nostro immaginario su questo conflitto è stato plasmato, come dice Nguyen, da Apocalypse now di Francis Ford Coppola o da Il cacciatore di Michael Cimino, e non dai romanzi vietnamiti come quello di Bảo Ninh o dai film dell‘“altra parte” che non potevano reggere il confronto con Hollywood.

Nella testa dell’altro
Sul New York Times all’inizio di settembre Bảo Ninh ha pubblicato un lungo articolo nel quale racconta la sua prima visita negli Stati Uniti nel 1998, per una conferenza letteraria, e la strana sensazione di “irrealtà” provata nell’essere circondato da americani quando si è stato un combattente nordvietnamita. I primi statunitensi che aveva “incrociato” erano stati i piloti invisibili dei jet che bombardavano il suo villaggio durante la sua infanzia, prima di partire anche lui in guerra contro uomini che non conosceva.

Questo esercizio di spostarsi per un momento “nella testa dell’altro” è indispensabile e salutare. Non necessariamente per aderire al suo modo di pensare, alle sue idee o ai suoi ragionamenti, ma per capirli e per andare al di là del discorso dominante che, soprattutto in tempo di guerra, cancella tutte le differenze.

È anche un’esigenza intellettuale ora che il mondo così come lo abbiamo conosciuto sta cambiando, e sta prendendo una direzione che non riusciamo sempre bene a capire.

In questo può aiutarci Pankaj Mishra. Questo intellettuale indiano è ancora troppo poco conosciuto fuori del mondo anglosassone. I lettori più attenti si ricorderanno il suo nome tra gli autori di un’opera collettiva, La grande regressione, uscita la primavera scorsa in Italia e in altri paesi per cercare di spiegare la nostra epoca.

Qualche anno fa, nel 2013, Mishra ha pubblicato in inglese un libro appassionante, Dalle rovine dell’impero, che racconta la storia dell’Asia tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, quando si sono instaurati i rapporti di forza tra le potenze coloniali e i paesi dominati. Lo scrittore racconta questa epoca attraverso la vita e l’azione di due “attivisti” asiatici: Jamal al Din al Afghani (1838-1897), un intellettuale di origine persiana considerato uno dei pensatori dell’islam politico moderno; e Liang Qichao (1873-1929), un intellettuale cinese attivo alla fine dell’impero Qing, quando la Cina cercava la sua via verso la “modernità”.

La creazione di un nuovo mondo
Poiché la storia la scrivono i vincitori, cioè le potenze colonizzatrici, e non chi ha cercato di resistere, si naviga in questo libro in territori intellettuali e in epoche note, ma con uno sguardo che ci è sconosciuto. È come se si osservassero dei paesaggi familiari ma attraverso altri occhi.

Mishra ha continuato a sviluppare la sua riflessione, che si può ascoltare in un convegno organizzato dal centro studi liberale europeo European council on foreign relations (Ecfr). Il direttore del centro studi, Mark Leonard lo ha intervistato sulla “fine dell’ordine liberale”, un concetto su cui si discute molto dopo la Brexit, l’avvento di Trump e così via.

Mishra risponde chiaramente che non si tratta di un semplice riequilibrio del mondo ma della creazione di un altro mondo:

Oggi assistiamo al declino delle potenze che hanno fatto emergere questo mondo connesso a partire dal diciannovesimo secolo. Di conseguenza gli ex imperialisti vivono l’esperienza di una considerevole perdita di potere e di autorità. Per descrivere questa situazione possiamo ricorrere agli eufemismi, possiamo chiamarla ‘ordine liberale’, piangere per il suo indebolimento e così via, ma non possiamo cancellare i fatti storici principali e cioè che il mondo creato dall’imperialismo nel diciannovesimo secolo si sta dissolvendo.

In questa trasformazione del mondo Mishra si mette nei panni di entrambe le parti: da un lato se si appartiene alla classe media europea, “è normale essere addolorati per la scomparsa di un mondo sul quale sono basati tanti saperi e affermazioni intellettuali”; ma se si è in Cina, “si osservano le cose diversamente. Quello che si vede è l’affermazione di un paese che è stato potente per molto tempo e che è stato umiliato nel diciannovesimo secolo e per una parte del ventesimo secolo, e che adesso sta riemergendo come grande potenza. Non saranno certo loro quelli addolorati per la scomparsa dell’ordine liberale”.

L’intellettuale indiano mette in guardia il suo interlocutore inglese: “Tutto dipende da dove ci si trova. L’errore che facciamo sempre è pensare il mondo da un punto di vista molto provinciale, europeo o statunitense”.

Tuttavia Mishra non è un simpatizzante dei regimi autoritari che si stanno imponendo in certe parti del mondo, in Cina, in Turchia o altrove. E anche se ritiene che sia arrivata l’ora dell’Asia, si dice preoccupato di vedere questo continente compiere gli stessi errori dell’Europa alla fine del diciannovesimo secolo e in particolare di cedere alle tentazioni del nazionalismo.

Questo discorso ha il merito di farci uscire dai dibattiti troppo incentrati sull’Europa e che raramente tengono conto dello “sguardo dell’altro”, non perché sia necessario approvarlo ma perché serve a capire la trasformazione del mondo che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Se non facciamo questo sforzo di comprensione, rischiamo di andare incontro a delle sorprese molto dolorose.

Dovremo aspettare quarant’anni per esplorare quello che c’è nella testa dell’altro, del “nemico”, dello “straniero”? L’esercizio catartico della serie The Vietnam war è probabilmente positivo per un’America che non si è ancora liberata dai suoi demoni, ma perché non applicare lo stesso metodo anche al mondo contemporaneo?

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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