28 settembre 2017 10:30

Sapete quanti nuovi stati sono stati creati nel mondo negli ultimi trent’anni? Almeno trenta, per lo più nati dalla scomparsa di grandi insiemi come l’Unione Sovietica e la Repubblica federale jugoslava, ma anche da “divorzi” come nel caso della Cecoslovacchia o del Sudan.

Le Nazioni Unite, che contavano 51 paesi alla loro creazione nel 1948, poi 159 nel 1988 dopo la decolonizzazione e alla vigilia della caduta del muro di Berlino e della fine della guerra fredda, hanno oggi 193 paesi membri; l’ultimo a essere stato ammesso è il Sud Sudan, entrato nel 2011 e purtroppo segnato fin dall’inizio dalla guerra e dalle sofferenze della sua popolazione.

La questione si pone di nuovo oggi con le spinte indipendentiste in regioni molto contrastate: il Kurdistan iracheno ha votato il 25 settembre per la sua indipendenza provocando forti tensioni con l’Iraq e con i suoi vicini; la Catalogna dovrebbe votare a sua volta il 1 ottobre e anche in questo caso i rapporti con Madrid sono molto tesi; la Scozia potrebbe sfruttare la Brexit per cercare una nuova possibilità di indipendenza; il Québec non ha ancora detto l’ultima parola al Canada; a Hong Kong c’è per la prima volta un movimento indipendentista mentre il Tibet e lo Xinjiang sarebbero ben contenti se Pechino li lasciasse fare. E la lista non è certo completa.

Pochi divorzi di velluto
Ognuno è un caso a sé ovviamente; è il frutto di una storia politica, di guerre e di conquiste, di errori e talvolta di crimini. Ma tutti sono caratterizzati da un’aspirazione profonda all’autodeterminazione, da un sentimento nazionale che dal diciannovesimo secolo in poi non si è attenuato e spinge delle comunità a rivendicare il diritto di ritrovarsi tra di loro, a mettere fine a dei matrimoni non sempre felici e voluti.

Queste aspirazioni possono sembrare legittime nei confronti della storia, ma ogni volta provocano una levata di scudi, minacce di guerra, reazioni e punizioni. Rari sono i “divorzi di velluto” come quello tra i cechi e gli slovacchi nel 1992, che convivono ormai in modo pacifico nell’Unione europea.

Il caso del Kurdistan è ovviamente esemplare. L’aspirazione all’indipendenza dei curdi è nota e li contraddistingue da sempre, soprattutto da quando il trattato di Sèvres del 1920, alla fine della prima guerra mondiale, promise uno stato alla minoranza curda, da far nascere sulle macerie dell’impero ottomano.

E anche in quell’occasione avevano rischiato di essere dimenticati. In un’opera collettiva sulla “questione curda” (edizioni Complexe) il ricercatore Stéphane Yerasimos racconta che la mattina del 30 gennaio 1919 alla conferenza di Parigi successiva alla sconfitta della Germania e dei suoi alleati, il britannico Lloyd George aveva presentato una risoluzione che prometteva la separazione ai popoli “assoggettati” e “maltrattati” dall’impero ottomano. Il pomeriggio aveva ripreso la parola per scusarsi di aver “dimenticato” un popolo nella lista approvata la mattina, i curdi. “Così”, scrive Yerasimos, “è nello spazio di un pranzo che il Kurdistan ha fatto il suo ingresso nella storia diplomatica”.

Un secolo di lotta
Conosciamo il seguito: la promessa non fu mai mantenuta e i curdi, oggi circa 40 milioni, sono dispersi in quattro paesi – Iraq, Iran, Siria e Turchia – che hanno in comune solo la volontà di rifiutare la nascita di uno stato indipendente curdo alla loro frontiera.

Il ventesimo secolo è stato per i curdi una lunga lotta, incarnata dalla figura del peshmerga, il leggendario combattente con il turbante che anche di recente ha dimostrato il suo valore sul campo di battaglia. È stato anche un secolo di massacri, come quello di Halabja, compiuto impunemente con le armi chimiche da Saddam Hussein nel 1988.

In realtà, nel 1946, all’indomani della seconda guerra mondiale, c’era stata un’effimera repubblica curda incentrata nella città di Mahabad, nell’ovest dell’Iran, ma era durata solo undici mesi, anche se continua a occupare un ruolo importante nell’immaginario collettivo curdo.

L’autodeterminazione implica più di una questione di principio. E i curdi rischiano di farne le spese

Dopo il massacro di Halabja, la guerra del Golfo del 1991, la caduta di Saddam Hussein nel 2003 con l’invasione statunitense e poi la rivolta in Siria nel 2011, la “questione curda” è tornata a essere di attualità in Turchia, in Siria e in Iraq (un po’ meno in Iran). In Iraq e in Siria i curdi sono tra i protagonisti della lotta contro i jihadisti del gruppo Stato islamico (Is), e hanno rafforzato la loro autonomia territoriale, la loro potenza militare insieme all’idea che si sia presentata un’occasione storica da non sprecare.

Eppure, anche chi non nega la legittimità dell’aspirazione curda a uno stato, è contrario all’iniziativa del presidente del governo regionale del Kurdistan iracheno Masud Barzani, al potere a Erbil dal 2005, che ha organizzato un referendum sull’indipendenza dal risultato abbastanza prevedibile.

Alcuni pensano che “non sia il momento” visto che la lotta contro l’Is non è ancora finita; altri invece temono una destabilizzazione di tutta la regione con iniziative simili prese dai curdi di Siria, Turchia e Iran, che condividono lo stesso sogno statale; lo stato iracheno infine rifiuta di perdere una parte del suo territorio, la regione di Kirkuk, ricca di petrolio e contesa tra curdi e arabi.

C’è poi chi contesta il potere di Barzani e lo accusa di strumentalizzare la causa indipendentista per consolidare il suo potere contro le altre fazioni curde e rafforzare un’amministrazione caratterizzata dalla corruzione e dal nepotismo.

L’autodeterminazione, dunque, implica ben più che una questione di princìpi, sui quali, dalla prima guerra mondiale, il mondo ha una posizione di relativo consenso. E ancora una volta i curdi rischiano di farne le spese, forse con il rischio di una nuova guerra.

Un inedito braccio di ferro
Di certo le tensioni sul referendum contestato del 1 ottobre in Catalogna non sono così gravide di conseguenze come quelle, militarizzate e legate al petrolio, del Kurdistan iracheno. Tuttavia anche all’interno dell’Unione europea e della sua zona di diritto e di democrazia, la Catalogna è al centro di una crisi sempre più preoccupante.

Non essendo riusciti a ottenere che la Spagna fosse un paese “plurinazionale”, dal 2010 i nazionalisti catalani stanno facendo molta pressione per ottenere il diritto all’autodeterminazione. Il governo centrale, che ha competenza sulla questione, ha rifiutato di concedere questo diritto e ha dichiarato incostituzionale l’organizzazione di un referendum.

Ogni volta il resto del mondo teme di aprire il vaso di Pandora della divisione e del micronazionalismo

Il braccio di ferro fra Madrid e Barcellona ha preso un carattere inedito e non lascia presagire nulla di buono per la convivenza all’interno di un regno “unificato”.
In tutte le situazioni caratterizzate da un problema di identità e da spinte indipendentiste c’è sempre una forte tensione tra l’espressione democratica dei popoli e il rispetto delle regole costituzionali che proteggono per prima cosa lo stato centrale.

Anche in questo caso nessuno incoraggia i catalani a scegliere la via dell’indipendenza, anche se loro assicurano di voler rimanere nell’Unione europea e di voler mantenere delle buone relazioni con una Spagna diventata un “paese vicino”.

Ogni volta il resto del mondo teme – come era già successo nel 1991 con la fine dell’Unione Sovietica – di aprire il vaso di Pandora della divisione e del micro-nazionalismo. L’esempio più evidente è stato quello dell’ex Jugoslavia: dopo essersi divisa in sei repubbliche indipendenti, corrispondenti all’ex federazione, una parte della Serbia, il Kosovo, è diventata indipendente con il sostegno dell’occidente, mentre le tre componenti della Bosnia-Erzegovina – serba, croata e musulmana – continuano a vivere tra forti tensioni.

I paesi che hanno al loro interno delle forti minoranze o delle regioni poco integrate temono questo fenomeno centrifugo e reprimono con durezza tutto quello che può somigliare a delle velleità indipendentiste. La Cina, per esempio, osserva con attenzione tutto quello che succede, anche dall’altra parte del mondo, e che potrebbe servire da precedente per il Tibet o per Hong Kong.

In un recente articolo pubblicato sul New York Times Joshua Keating, autore di un libro di prossima pubblicazione sui “paesi invisibili”, sottolinea che la carta del mondo attuale è ancora “ben lontana dall’essere perfetta” e ricorda che continua a subire dei cambiamenti, alcuni ottenuti con la forza come l’annessione della Crimea da parte di Vladimir Putin in seguito alla crisi ucraina del 2014, ancora considerata “illegale” dalla comunità internazionale, o la spinta cinese nel mar della Cina meridionale dove Pechino sta cambiando i limiti della sua zona marittima.

L’autore raccomanda alla comunità internazionale di permettere “delle separazioni pacifiche, ordinate, democratiche”, anziché “violente e caotiche”:

Non sono favorevole all’indipendenza del Kurdistan, della Catalogna, della Scozia o di qualunque altro posto. Ma quando la forma dei paesi è stata disegnata da persone che non ci vivono, di solito questa divisione non funziona molto bene. Ci sono valide ragioni per essere scettici sulle affermazioni di questi movimenti indipendentisti, ma questo non significa che il mantenimento dei paesi nelle loro frontiere attuali sia necessariamente un buon principio.

Dovremo quindi abituarci a ridisegnare i nostri atlanti ogni due o tre anni, in funzione della nascita di nuovi paesi? Che lo si voglia o meno, sarà probabilmente inevitabile. Il vero problema è quello di sapere se questo fenomeno potrà essere regolato, inquadrato, negoziato, o se invece si accompagnerà inevitabilmente a un certo livello di forza e di violenza.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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