15 gennaio 2019 12:02

Nel paese dei bookmaker non sono in molti a scommettere sul successo della premier britannica il 15 gennaio in parlamento. Al massimo a Theresa May viene concesso il 20 per cento di probabilità di spuntarla in un test sull’accordo raggiunto con Michel Barnier, il negoziatore dell’Unione europea.

In ogni caso è ancora possibile che l’ultimo coniglio tirato fuori dal cappello di May riesca a far cambiare idea a una parte dei critici conservatori: la premier ha infatti dichiarato che l’alternativa a quest’accordo sarà l’assenza di una Brexit, cosa che rappresenterebbe un tradimento del voto popolare del 2016.

Il problema del parlamento britannico, in questo preciso momento storico, è che non esiste una maggioranza a sostegno di un’idea: né per la permanenza nell’Unione né per una separazione con le diverse formule disponibili. Non esiste una maggioranza nemmeno per il “no deal”, ovvero la separazione senza accordo, un esito che potrebbe comunque realizzarsi e che avrebbe conseguenze nefaste sul tenore di vita dei britannici.

I vantaggi di un rinvio
Restano appena 73 giorni prima del 29 marzo, la data in cui il Regno Unito non apparterrà più, teoricamente, all’Unione europea. A questo punto esiste la possibilità concreta che la scadenza venga rinviata. È tecnicamente possibile. Londra potrebbe chiedere una proroga almeno fino a luglio.

Il rinvio potrebbe favorire diversi sviluppi: uno è sicuramente la rinegoziazione dell’accordo con i ventisette, nella speranza (da parte di Londra) che si mostrino più concilianti dopo aver registrato l’ostilità del parlamento britannico. Al momento questa non è la tendenza del resto d’Europa, ma si può sempre credere ai miracoli.

L’altra possibile via d’uscita è un nuovo referendum

Il rinvio potrebbe però comportare altre vie d’uscita: la prima, auspicata dall’opposizione laburista – come ha ribadito il leader Jeremy Corbyn fino al 14 gennaio – è l’organizzazione di nuove elezioni. Corbyn naturalmente spera di vincerle, ma non c’è niente di certo considerando che la crisi dei conservatori non ha particolarmente favorito i laburisti. In questo modo, tra l’altro, non si troverebbe necessariamente una soluzione al problema europeo, anche perché Corbyn è apparso piuttosto ambivalente sul tema.

L’altra possibile via d’uscita è un nuovo referendum. I britannici, e questo gli fa onore, non sono troppo inclini a seguire questa strada, perché in fondo rappresenterebbe un tradimento della volontà degli elettori. In Francia conosciamo bene le conseguenze del mancato rispetto del “no” vittorioso al referendum sul trattato costituzionale europeo del 2005, cancellato dall’approvazione del trattato di Lisbona per via parlamentare tre anni più tardi.

Ma è anche vero che la situazione è cambiata rispetto al referendum britannico del 2016, ora che i termini dell’uscita sono stati negoziati, e dunque ci sarebbe una ragione logica per sottoporre questo accordo agli elettori.

Basta seguire per qualche ora il dibattito alla camera dei comuni per constatare che l’impasse è ormai profonda e c’è bisogno che qualcuno intervenga. In un certo senso è meglio che lo facciano gli elettori, in un modo o nell’altro. È con questo dilemma sulle spalle che i britannici si risveglieranno il 16 gennaio, dopo l’ennesimo psicodramma alla camera dei comuni.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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