Il 15 settembre il presidente degli Stati Uniti ha scritto su Twitter che le armi erano “locked and loaded” (cariche e pronte a far fuoco) per rispondere all’attacco contro le strutture petrolifere saudite. Tre giorni dopo, la minaccia di Trump ha partorito solo nuove sanzioni economiche contro l’Iran, che si aggiungono a quelle, già durissime, imposte in primavera.

L’opzione militare può riemergere in qualsiasi momento, ma il fatto che Trump abbia scelto di annunciare prima le sanzioni (che non cambieranno in alcun modo l’equazione iraniana) può essere interpretato come un segnale di abbassamento della tensione. Tuttavia, nello stesso momento, il segretario di stato Mike Pompeo, presente in Arabia Saudita, ha adottato un tono diverso parlando di “atto di guerra” e attaccando l’Iran.

Queste contraddizioni non sono una novità. Trump non resiste alla tentazione di usare Twitter, ma la verità è che non vuole scatenare un’altra guerra in Medio Oriente proprio mentre porta avanti la campagna elettorale per la sua rielezione. Nei suoi annunci, il presidente degli Stati Uniti si mantiene per il momento nella logica della “massima pressione” su Teheran.

Scambi di tweet
In questo modo Trump corre il rischio di apparire indeciso. Poco prima di annunciare le nuove sanzioni, il presidente ha risposto seccamente a un parlamentare repubblicano che, sostanzialmente, gli aveva dato del codardo. Il senatore Lindsey Graham aveva parlato di “segnale di debolezza” a proposito della decisione presa da Trump, a giugno, di non attaccare l’Iran dopo che un drone statunitense era stato abbattuto dal regime. “No, Lindsey, è un segnale di forza, ma ci sono persone che non lo capiscono”, ha risposto Trump in un tweet.

Le nuove sanzioni potranno convincere gli statunitensi che il loro presidente è un uomo d’azione, ma non serviranno a molto altro

Donald Trump, insomma, gonfia spesso il petto ma non passa quasi mai all’azione. Il presidente aveva minacciato il dittatore nordcoreano Kim Jong-un di scatenare “il fuoco e la furia”, per poi incontrarlo e mostrarsi estremamente docile nonostante la mancanza di progressi nel negoziato.

Nel caso dell’Iran, dopo aver deciso di uscire dall’accordo sul nucleare il presidente ha ordinato sanzioni unilaterali che soffocano l’Iran. Ma questa strategia, lungi dal produrre l’effetto desiderato, non ha fatto altro che incrementare le tensioni nel Golfo, culminate con l’attacco del 14 settembre.

Le nuove sanzioni potranno anche convincere gli statunitensi che il loro presidente è un uomo d’azione, ma non serviranno a molto altro. Anche perché le sanzioni, al giorno d’oggi, sono l’arma che si utilizza quando non si sa più cosa fare.

Credibilità in gioco
In un articolo pubblicato nell’ultimo rapporto annuale Ramsès, l’ex diplomatico Denis Bauchard, esperto di questioni mediorientali, mette in dubbio l’efficacia delle sanzioni come strumento di pressione. Nel caso dell’Iran, Bauchard sottolinea la resistenza dei suoi abitanti e aggiunge che il principale effetto delle sanzioni è quello di rafforzare la posizione dei falchi a Teheran. “È in gioco la credibilità di Washington”, conclude l’ex diplomatico.

La debolezza della strategia di Donald Trump sta nel fatto che non lascia alcuna via d’uscita agli iraniani ma non porta la sua filosofia fino alle estreme conseguenze. Gli Stati Uniti e l’Iran hanno escluso qualsiasi possibilità di un incontro durante il vertice delle Nazioni Unite a New York in programma la settimana prossima, bocciando la proposta francese. I due paesi si stanno testando a vicenda, in attesa che uno o l’altro sbatta le palpebre per primo. La situazione lascia presagire nuovi incidenti e nuove tensioni.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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